Ferrario letterario

Il cinema intrattiene un dialogo stretto con la letteratura dal momento in cui ha imparato a raccontare una storia. Pur essendo riuscito, anche piuttosto velocemente, a sviluppare una semiotica tutta sua – «un linguaggio senza lingua» avrebbe scritto il semiologo Christian Metz – e a scalzare il letterario come forma più popolare di narrazione, è proprio dalla letteratura che ha mutuato le nozioni fondamentali di racconto, narratore, focalizzazione, messa in intreccio, o anche il ricorso ai generi e la manipolazione della temporalità. Fin dal principio questa relazione si è articolata in varie forme di intertestualità e intermedialità, come accompagnata da una sintonia filosofica nell’elaborazione e nella rappresentazione dell’esperienza e del rapporto che intrecciamo con il mondo.

Nel 1960, in una lettera all’editore francese François Wahl, Italo Calvino scriveva: «L’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro». Se è vero che la spettatorialità cinematografica è quel regime che conferisce il potere dell’ubiquità – possiamo essere ovunque, restando immobili – ecco che, allora, è come se la letteratura insegnasse a essere spettatori, ad affinare uno sguardo che si trova sempre nel mezzo di mondi possibili. Diventa così una questione non solo formale e strutturale ma anche estetica e filosofica.

Non è un caso che il regista bergamasco Davide Ferrario, che è anche romanziere e scrittore, scelga proprio quelle parole di Calvino in apertura a Italo Calvino nelle città (2024), il documentario scritto con Marco Belpoliti, docente di Critica letteraria e letterature comparate all’Università degli studi di Bergamo, l’ultimo di una serie ormai piuttosto nutrita di racconti cinematografici dedicati ad autori della letteratura contemporanea italiana. Prima di lui, e in ordine cronologico, furono Gianni Celati (Mondonuovo, 2003), Primo Levi (La strada di Levi, 2005) e Umberto Eco (Umberto Eco – La biblioteca del mondo, 2022). Senza considerare l’esperimento di “paesologia” visiva, accompagnato dal poeta Franco Arminio, in Nuovo cinema paralitico (2020).

Di letteratura che insegna a guardare, scriveva Calvino. I film letterari di Ferrario sembrano muoversi proprio in accordo a questa specie di sinestesia. Sono storie di scrittori in movimento: per i primi due si tratta di un viaggio vero e proprio, movimento e osservazione per l’uno, movimento e testimonianza per l’altro. Ci sono i luoghi che hanno attraversato, in cui lo sguardo è un gesto che diventa parola, e che Ferrario traduce in immagine. Con Eco il movimento è invece tutto nell’immaginario, dentro un luogo della memoria collettiva com’è una biblioteca. Sono tutte opere di non-fiction cui l’etichetta “documentari” calza stretta, vista la predisposizione del regista a ibridare i generi e giocare con le forme del racconto, i materiali d’archivio, con la messa in scena e il suo disvelamento metanarrativo. Ferrario emerge come regista nel periodo di transizione dall’analogico al digitale: forse proprio per questo nel suo cinema documentario si trova una sorta di filosofia dell’artigianalità che orienta l’estetica dell’immagine e lo stile del racconto, e che deriva dall’uso dinamico di formati e immagini di diverso statuto (pellicola, nastro magnetico, digitale). Un repertorio videografico che interpreta a suo modo la corrente postmodernista: non c’è gerarchia ma una potenzialità espressiva in cui far convivere aspetto amatoriale e professionale, formato televisivo e cinematografico, tenore visivo “basso” e “alto”.

Un esempio di questa creatività formale è Mondonuovo (2003), dedicato allo scrittore ferrarese Gianni Celati. Qui, il regista accompagna lo scrittore in un vagabondaggio per la pianura padana emiliana, nel reggiano e nel modenese, ma soprattutto nelle zone tra Ferrara e la foce del Po: luoghi della sua famiglia, di una parte importante della sua scrittura e della collaborazione con Luigi Ghirri e altri fotografi. Con un incedere quasi improvvisato e disorientato («Bisogna sempre sbagliare strada e fermarsi. Questo è l’unico modo di…») che invita a dare centralità a tutto ciò che è marginale, laterale, desolato, dimenticato dallo sguardo, come metodo per sperare di trafiggere il cuore delle cose, Celati – e Ferrario con lui – ci accompagna «a vedere i posti», perché «tutti i posti sono interessanti, non c’è un posto che non sia interessante». Soprattutto quelli in cui non c’è proprio niente da vedere.

Così sembra davvero possibile scoprire una specie di verità sul mondo che ci circonda e sul significato del tempo che passa nei pressi di un incrocio di canali tra Copparo, Jolanda di Savoia, Tresigallo e Codigoro, o in un bar della provincia più profonda dove «non c’è mai davvero il nuovo assoluto, c’è sempre qualcosa che è una via di mezzo tra il nuovo e il vecchio». Ferrario filma tutto in tre formati diversi (16 mm, Betacam SP e MiniDV), come a voler rinnovare continuamente la lente attraverso cui guardiamo la realtà, e per assecondare Celati in quella sua ispirazione vertoviana del “cogliere la vita sul fatto”, così com’è, senza estetizzare, narrando senza fare dei luoghi una “cartolina”, accordandosi a un paesaggio in cui è «tutto improntato al contrario della spettacolarità».

Uno stile simile lo si ritrova in La strada di Levi (2005), ideato e scritto con Marco Belpoliti. Di nuovo un racconto in movimento, un progetto che intende ripercorrere la strada del ritorno da Auschwitz che sessant’anni prima percorse Primo Levi, e che nel 1963 raccontò nel romanzo La tregua. Si attraversa l’Europa centrale del mercato libero a poco più di dieci anni dal crollo dell’Unione Sovietica: Polonia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Romania, Ungheria, Austria, Germania. I luoghi e le persone diventano dei palinsesti sui quali leggere il presente alla luce delle tracce del passato, con le parole dello scrittore torinese come bussola interpretativa e contrappunto alle immagini. Identità, nazionalismo, piccole patrie, lo Stato che pervade o arretra, lasciando il più delle volte instabilità politica ed economica. Così come continua a fare la letteratura di Levi, il film ci aiuta a rinnovare la riflessione sull’Europa, sulla parabola di un continente oggi sempre più stanco e impaurito, su un presente – il nostro – che non hai mai dato l’impressione di essere così incastrato tra passato e futuro. Ferrario e Belpoliti hanno il merito di costruire un racconto che ha ancora qualcosa da dire, che rinnova e si rinnova, pur a vent’anni di distanza ormai: ed è forse il miglior tributo che si possa dedicare a uno scrittore dal grande valore civile come Primo Levi.

La contemporaneità restituisce riflessi sempre nuovi quando si specchia nelle parole di questi tre autori. Succede anche e soprattutto in Umberto Eco – La biblioteca del mondo (2022), racconto nato da un progetto di videoinstallazione per la Biennale di Venezia sul tema della memoria e sviluppatosi in un grande ritratto familiare dello scrittore e della sua bibliofilia. Il movimento qui è soprattutto figurato, seppur il film si apra con un simbolico piano sequenza con cui seguiamo Eco nel labirinto della sua casa-biblioteca. È il punto di inizio di una riflessione sulle biblioteche come luoghi vivi in cui matura la memoria collettiva, sul nostro vivere nel tempo dove «siamo come l’atleta che per fare un balzo avanti deve fare sempre un passo indietro», sulle sfide che nel presente di internet riguardano oggi la memoria e la nozione di “enciclopedia del mondo”, con il rischio che la memoria collettiva (che oggi si nutre su internet), senza processi selettivi diventi sempre più quella di Funes el memorioso, il personaggio di Jorge Luis Borges che ha una memoria totale, ricorda tutto ma che proprio per questo «è praticamente un imbecille». Ferrario struttura il racconto in tre capitoli principali – “Ricordare”, “Raccontare”, “Mentire” – e ci accompagna nel vortice di riflessioni sempre nuove sulle insidie dell’infosfera in cui ci muoviamo, sulla cosiddetta post-verità e sul fallimento dell’utopia della conoscenza ad accesso libero, che ha sempre più i contorni di una distopia in cui l’unico accesso è quello a una costante disinformazione. È la narrativa, dice Eco, a offrici un modello di verità incontestabile: ecco allora che letteratura e cinema, in quanto grandi medium narrativi, diventano formidabili strumenti per raggiungere una verità anche quando sofisticano la realtà, anche nel racconto “falso”: «il segno è tutto ciò che può essere usato per mentire» ribadisce Eco. Ed è qualcosa che, concettualmente, entra in dialogo anche con l’approccio “compositivo” di Ferrario al genere documentario, a riprova di un’evidente volontà di non rispettarne i cliché, a partire dalla presunzione di trasparenza sulle cose che racconta.

di Mirco Roncoroni


Davide Ferrario: Cinema e letteratura

28 novembre, 5 dicembre, 12 dicembre 2024
Aula 1, via Pignolo 123
Università degli studi di Bergamo
Con Davide Ferrario, Marco Belpoliti, Riccardo Fedriga, Nunzia Palmieri