Animalità

In principio era un cavallo. Fin dai suoi inizi la cinematografia si è cimentata nella rappresentazione del mondo animale. Si può dire che la storia delle immagini in movimento abbia inizio con Sallie Gardner at a Gallop (1878) del fotografo britannico Eadweard Muybridge, uno studio fotografico sul movimento di un cavallo al galoppo che oggi è riconosciuto come uno dei primissimi esperimenti proto-cinematografici, insieme alla cronofotografia del fisiologo francese Étienne Jules Marey, con il suo “fucile fotografico” e lo studio sul volo degli uccelli. Insomma, cavalli e uccelli a battesimo della settima arte. Sembra così che il cinema abbia in qualche modo inaugurato la tendenza della tecnica a volgere lo sguardo al mondo naturale e animale per ideare e sperimentare i suoi progressi. Una tendenza che prosegue tutt’oggi. Si consideri anche solo la cosiddetta swarm intelligence che caratterizzerebbe entità animali come banchi, stormi, mandrie, colonie di insetti: intelligenze collettive in grado di organizzarsi, apprendere, decidere, correggersi, improvvisare se necessario, senza un vero e proprio centro di controllo. Autentici superorganismi intelligenti – come possono esserlo anche piante e funghi – che oggi ispirano la robotica e i modelli di machine learning delle intelligenze artificiali, in un affascinante incontro tra natura e computer science che è ancora tutto da scoprire.

L’interesse verso il mondo animale ha sempre riguardato da vicino non solo la tecnica ma anche le arti e i linguaggi, dacché l’umanità ha sentito la necessità di comunicare, definire liturgie sociali, narrativizzare l’esperienza, anche in termini allegorici. I più antichi esempi di arte figurativa di cui abbiamo contezza risalgono al Paleolitico superiore e raffigurano proprio degli animali. Lo racconta il regista tedesco Werner Herzog in Cave of Forgotten Dreams (2010), film documentario sulla Grotta Chauvet e le sue straordinarie pitture rupestri, che pare fossero destinate a essere “fruite” con la luce guizzante di una fiamma viva. Anche per questo il regista ipotizza che siano state realizzate proprio per restituire l’illusione del movimento, in una forma di proto-cinema in cui l’animale (e tutto ciò che rappresentava per la sopravvivenza) ha di nuovo un ruolo di primo piano. Sembra allora esserci un filo a unire tra le pitture di Chauvet, gli studi sul movimento di Muybridge e la cronofotografia di Marey: come una continuità che contribuisce a definire l’ontologia di ciò che oggi chiamiamo cinema.

Fantastic Mr. Fox (Wes Anderson, 2009)

Umanità e animalità: convivenza e dominio, armonia e conflitto

Com’è ampiamente valso per la letteratura, anche il cinema ha approfondito il rapporto tra forme di vita, tra umanità e animalità in particolare, articolandolo in un ventaglio di possibilità drammaturgiche e di spunti filosofici che attraversano i generi in modo specifico e trasversale. In Vita da cani (1918) di Charlie Chaplin, per esempio, la convivenza tra il vagabondo e il cagnolino-trovatello insiste nel voler restituire dignità agli ultimi, agli esclusi, e fare della marginalità sociale uno spazio in cui il confine tra umano e animale sbiadisce per rivendicare la dignità dell’esistenza – di qualsiasi esistenza. Una prospettiva vagamente antispecista che si trova ancora più a fuoco in Au Hazard Balthazar (1966) di Robert Bresson, racconto di mortificazione e redenzione della vita di un asino, Balthazar, che passando di padrone in padrone diviene il simbolo dell’innocenza che si trova a fare i conti con la crudeltà innata (naturale?) degli esseri umani.

Di fronte alla parabola esistenziale di Balthazar ci si chiede: cosa sono, in fin dei conti, la bestialità e l’umanità? Sono prerogative di una specie? Queste stesse domande sembrano muovere anche gli intenti di un altro film che prova a ridimensionare la prospettiva antropocentrica, anche delle emozioni. Si tratta di Cow (2021) della regista britannica Andrea Arnold, documentario in cui lo spettatore è invitato a condividere il punto di vista di una mucca da latte nella quotidianità della sua vita in allevamento, come mezzo-vivente di produzione industriale. Come spesso accade, la convivenza significa sfruttamento, e da parte della regista è evidente la volontà di muovere una critica ai meccanismi di produzione intensiva. Lo spettatore accompagna l’animale nelle sue giornate con una specie di pedinamento zavattiniano: il legame empatico è immediato. Ecco allora che, ancora una volta, sembra aprirsi un varco nel confine di separazione tra esperienza emotiva umana e animale. Tutt’altro succede in Cane bianco (1982), cult “maledetto” di Samuel Fuller, dove la bestialità dell’animale – un cane addestrato ad aggredire ferocemente le persone nere – deriva dall’aver appreso un atteggiamento tipicamente umano: il razzismo. Un prodotto (sotto)culturale evidentemente, e non naturale: qualcosa che solo un umano può insegnare. Il film è stato ampiamente frainteso, tuttavia sembra in grado di allargare, ancora una volta e con un corto circuito subliminale, il campo semantico dei termini animalità e umanità.

La sovrapposizione tra caratteri umani e animali agisce anche nei processi di antropomorfizzazione degli animali che caratterizzano buona parte della produzione del cinema di animazione – si pensi anche solo ai prodotti Walt Disney o Looney Tunes. Alcuni dei film animati più interessanti che analizzano il tema del confronto tra cultura e natura, tra umanità e animalità, arrivano però dall’universo narrativo di Hayao Miyazaki. Il maestro giapponese è particolarmente attratto dalla possibilità di coniugare ecologismo e tecnofilia, e di un incontro (utopico?) tra tutela ambientale e sviluppo antropico non violento. Sono temi che riguardano, per esempio, Nausicaä della Valle del Vento (1984) o La principessa Mononoke (1997).

La relazione tra forme di vita e la complessità nel raggiungere una convivenza che si vorrebbe armonica riguarda anche Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson (2009). Qui la convivenza tra animali e umani è possibile fintanto che una delle due parti – quella animale – deroga alla propria natura selvaggia e rinuncia ai propri istinti. La convivenza, per dirsi tale, può prevedere uno squilibrio tra le parti? È più bestiale una volpe che si comporta da volpe rubando una gallina, o un uomo che si comporta da uomo sparando alla volpe per proteggere la proprietà?

Lo squalo (Steven Spielberg, 1975)

Umano e animale: incontri impossibili

La storia del cinema è costellata di animali che minacciano l’incolumità degli esseri umani, di lotte tra ingegno e forze naturali e mostruose, di Achab e Moby Dick che si affrontano, spesso nel segno di una separazione manichea tra bene e male, non sempre così granitica tuttavia. In Gli uccelli (1963) di Alfred Hitchcock, per esempio, è messa in scena con un tono sempre più apocalittico (e allegorico) la rivolta di volatili comuni organizzati – una swarm intelligence – decisi a vendicarsi con l’umanità. Non c’è motivo, non c’è spiegazione: una rivincita horror della natura che riprende il dominio sull’uomo trasformando nell’angelo della morte un simbolo di eleganza e leggerezza. Diversamente simile è Lo squalo (1975) di Steven Spielberg, successo clamoroso che ha segnato indelebilmente l’immaginario di intere generazioni con un’idea di natura (marina in questo caso) che può nascondere sempre una minaccia sotto la superficie, nell’ignoto delle sue profondità. Al di là della pur interessante metafora sociologica e psicanalitica che questo aspetto può assumere (l’estraneo come minaccia di un equilibrio sociale, o l’affiorare di pulsioni inconsce e di paure che minano l’equilibrio esistenziale piccolo-borghese) il film è esemplare nella capacità di mettere in scena lo scontro tra ingegno umano e forze della natura attraverso una dialettica conflittuale che interessa tutti i livelli della narrazione, in un crescendo di tensione che continua a fare scuola. In questo caso natura umana e natura animale (mostruosa ma particolarmente intelligente) lottano mettendo sul piatto tutto il portato di due condizioni esistenziali incompatibili, in cui è forse il desiderio di annientamento dell’altro a essere condiviso. Ne rimarrà solo uno, senza sentimentalismi o mezze misure. Un po’ come in Jurassic Park (1994), dove la scena è invece tutta per una prodigiosa intelligenza naturale – la vita, qualsiasi forma assuma, anche mostruosa – che riesce a prorompere nonostante le restrizioni della scienza umana.

Ecco allora che il dialogo tra forme di vita è sempre un dialogo con l’alterità, un incontro e uno scontro, un campo magnetico in cui agiscono forze di attrazione e repulsione in una disposizione binaria che, da un punto di vista narrativo, attinge ai modelli del mito. Si è accennato a una linea di confine tra animalità e umanità, una soglia che separa e unisce due diverse condizioni esistenziali: è nell’oscillazione tra queste due, in tutto ciò che sta tra antinomia e conformità, che si aprono le profondità dentro le quali il cinema fa da scandaglio. Nel documentario Grizzly Man (2005) di Werner Herzog – regista che, come Miyazaki, tematizza volentieri la complessa dialettica tra natura e cultura – si evidenziano le complicazioni di un incontro aperto tra umano e natura selvaggia, e il ruolo delicato del cinema (della videografia in generale) nel raccontarle. Il film ricostruisce la vita di Timothy Treadwell, ambientalista, esperto ed amante disperato degli orsi bruni che per anni ha passato le estati nelle riserve dell’Alaska a stretto contatto con i predatori, producendo centinaia di ore di filmati amatoriali, prima di essere sbranato dagli animali insieme alla sua compagna. Herzog ha composto buona parte del film con il materiale video prodotto dall’attivista. Questi, tutt’altro che sprovveduto, interpretava sé stesso come eroico e solitario protettore dei grizzly, un “guerriero gentile”. Il documentario affronta con un tatto straordinario la storia tenera e tragica di un essere umano la cui natura non poteva che trovare realizzazione all’interno di un mondo – quello dei grizzly – che, a dispetto di ogni romanticismo, non può essere a misura d’uomo. È nel divario incolmabile tra aspirazione idealistica e cruda realtà che il regista tedesco cerca una verità, qualcosa che dia senso alla tragedia al di là di giudizi sommari e liquidatori: la capacità smisurata di amare qualcosa che può anche annientarti, forse, come traccia dolceamara di ciò che significa essere umani.

Il bacio della pantera (Jacques Tourneur, 1942)

Incontri possibili: metamorfosi e mutamenti

È evidente come la bestialità sia una caratteristica non ascrivibile a una singola specie, non relegabile al regno animale. Per gli esseri umani assume più spesso le sembianze di una stortura etica e morale, ma ancora più interessante, soprattutto per il cinema di genere, è quando l’ibridazione riguarda il corpo, in un vero e proprio incontro carnale tra umano e animale, civilizzato e selvaggio. La lista di titoli a riguardo è smisurata nella sua eterogeneità. Il cosiddetto body-horror si è sbizzarrito in questo senso: la licantropia ha inaugurato il genere, da L’uomo lupo (1941) di George Waggner alla saga di Twilight(2008-2012) si passa per un’ibridazione che riguarda anche i generi. È il caso di Un lupo mannaro americano a Londa (John Landis, 1981), classico della commedia horror, o dell’horror sentimentale Wolf – La belva è fuori (1994) di Mike Nichols. Nei film sulle metamorfosi, animalità e bestialità irrompono nella corporeità umana allargando uno spazio liminare in cui la drammaturgia gioca con la lotta tra desiderio e destino, forza dei sentimenti e senso del sacrificio. Sono condizioni esistenziali delle identità ibride destinate alla non appartenenza, alla marginalità, come già insegnava il Mostro del dottor Frankenstein, e più in generale l’eroe romantico. Se ne trova una declinazione in film come Il bacio della pantera di Jacques Tourneur (1942) che narra la lotta di una donna con la condanna a trasformarsi in una feroce pantera ogni volta che è travolta dalle passioni, dall’animalità dei sentimenti.

Sulla trasformazione del corpo in una prospettiva postumana gioca un altro cult del genere body-horror, La mosca (1986) di David Cronenberg, evidenziando ancora una volta l’incompatibilità di una soluzione normalizzabile nell’incontro tra umanità e animalità. Qualcosa che emerge invece in Waterworld (Kevin Reynolds, 1995), western atipico con Kevin Costner nei panni di un mutante che sviluppa le branchie in uno scenario marino post-apocalittico, un mondo dove le terre sono sommerse e le uniche forme di vita rimaste sono umani, pesci e mostri marini. La mutazione e l’ibridazione con l’animalità ha qui una connotazione non mostruosa ma virtuosa: come per alcuni eroi dei fumetti (Spider-Man su tutti), implementa le capacità del protagonista di fronteggiare gli antagonisti. Film più recenti come The Animal Kingdom (Thomas Cailley, 2023) provano invece a spingere questa tematizzazione in territori nuovi in grado anche di dialogare con la sensibilità contemporanea in fatto di scoperta della propria identità: la mutazione è vista come un’opportunità di superare il binarismo e le convenzioni di genere, insieme cinematografiche e sessuali.

A cura di Mirco Roncoroni