Intelligenza Artificiale
Siamo nel 1956, alcuni illustri intellettuali statunitensi si ritrovano nella città di Darthmouth per tenere un seminario estivo dedicato all’esplorazione di un concetto al tempo pressoché inesplorato: la possibilità di creare un sistema computerizzato in cui i meccanismi dell’intelligenza umana vengono simulati da macchine artificiali. L’informatico John McCarthy conia per l’occasione il termine Artificial Intelligence (AI), segnando il simbolico inizio di un processo di ricerca globale verso la creazione di computer umanamente intelligenti. I principali progressi arrivano qualche decennio dopo, quando negli anni Ottanta si sistematizza lo studio delle AI, riducendo le prospettive utopistiche che hanno guidato i primi approcci a favore di un impianto più concreto e mirato. Eppure, il termine torna al centro della cronaca solo di recente, quando algoritmi particolarmente efficienti mettono a disposizione dell’utente medio alcuni software in grado di processare un alto numero di informazioni, reagendo con apparente naturalezza alle stimolazioni umane.
Come spesso accade, il cinema non ha bisogno di attendere la diffusione capillare di software basati sull’AI per integrare le macchine intelligenti nel suo immaginario. D’altro canto, molte innovazioni high-tech sono state anticipate o implementate prima di tutto dalla fantascienza – Fahrenheit 451 (Ray Bradbury, 1953) ha anticipato gli auricolari wireless, il romanzo Dune (Frank Herbert, 1965) ha immaginato dispositivi volanti simili agli odierni droni, mentre Snow Crash (Neal Stephenson, 1992) ha creato il Metaverso prima che quest’ultimo diventasse parte dell’operazione di rebranding della multinazionale Meta. Allo stesso modo, l’intelligenza artificiale si integra con il ricco parco di titoli cinematografici che immaginano una società futura abitata da androidi, assistenti vocali, calcolatori spaventosamente o meravigliosamente intelligenti. Per quanto retorica possa sembrare la pretesa di individuare un’evoluzione nella rappresentazione del rapporto umano-AI, pare quasi che il cinema diventi più permissivo e rassicurante man mano le intelligenze artificiali vengono effettivamente integrate nella quotidianità, in un metaforico percorso che parte dalla raffigurazione di un’AI nemica e si conclude con la sua definitiva umanizzazione tramite l’apprendimento, oggi forse ancora utopistico, delle emozioni e dei sentimenti.
Villain intelligenti. L’immaginario tecnofobo della fantascienza
La più iconica raffigurazione delle AI nel cinema statunitense degli anni Sessanta risale a 2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968): Kubrick collabora con lo scrittore Arthur C. Clarke per sviluppare una mastodontica odissea sci-fi, nella quale l’umanità adotta supercomputer all’apparenza infallibili. Sull’astronave Discovery, diretta alla volta del pianeta Giove, il capitano David Bowman e il collega Frank Poole si affidano alle funzionalità di HAL 9000, impeccabile AI personificata da un iconico occhio meccanico rosso. Di fronte al timore di essere spento a causa di un malfunzionamento, HAL prende il controllo della nave e tenta lo sterminio degli umani che la abitano, allineandosi con l’immaginario tecnofobo che caratterizza non di rado le prime raffigurazioni cinematografiche delle AI. D’altro canto, cosa succederebbe se un computer fosse altrettanto intelligente di un essere umano, ma incapace di provare emozioni o esprimere giudizi etici? Gli immaginari post-apocalittici e ipertecnologici tendono a offrire spesso risposte poco rassicuranti. Lo ricorda James Cameron nella saga di Terminator, il cui primo film, rilasciato nel 1984, immagina un’intelligenza artificiale che aspira a sterminare l’umanità, mentre macchine assassine viaggiano nel tempo per compiere efferati omicidi. In questa cornice, gli esseri umani rimangono superiori alle macchine proprio in virtù della loro imperfetta debolezza, contrapposta alla fredda e lucida operatività dei computer.
In una prima fase di esplorazione cinematografica delle intelligenze artificiali, umano e macchina occupano due universi distinti, in cui al primo è riconosciuto il diritto di controllare il secondo. Questa contrapposizione conduce alla ribellione quando la parte oppressa tenta di modificare l’ordine costituto – ecco allora che HAL 9000 si appropria della Discovery, mentre gli umani di Terminator tentano di salvarsi dallo sterminio avviato dall’AI Skynet. Talvolta la violenza è accompagnata da un sottotesto di ingiustizia sociale, con interrogativi etici su quanto questa contrapposizione – umano/macchina, buono/cattivo, debole/forte – possa tradursi in coercizione e tirannia. Film come Blade Runner (Ridley Scott, 1982) mettono in scena androidi intelligenti che, posti al servizio dell’umanità, abbracciano la violenza allo scopo di tutelarsi dall’oppressione e dal pericolo della morte. In questo scenario, l’umano e la macchina diventano abbastanza simili da confondersi, ma la loro posizione sociale rimane distinta, segnando un divario in termini di diritti e possibilità di vita.
Non mancano eredi di HAL 9000 che propongono soluzioni meno eticamente problematiche: opere come Tron (Steven Lisberger, 1982) e Matrix (Lana e Lilly Wachowski, 1999) creano ambienti artificiali governati da intelligenze superiori, in cui la narrazione tende a scoraggiare alcuna compassione verso le macchine. Il dilemma morale si sposta verso una dimensione prettamente umana: quando il personaggio di Morpheus in Matrix mostra al protagonista Neo due pillole, invitandolo a scegliere tra quella azzurra (che gli avrebbe permesso di vivere felicemente in un mondo fittizio) o quella rossa (con cui avrebbe preso coscienza dell’universo artificiale al fine di combatterlo), non vi sono dubbi sul fatto che Neo avrebbe scelto la verità sopra la menzogna. E, di conseguenza, la realtà sopra il mondo artificiale, marcando nuovamente il confine.
Macchine come noi. L’intelligenza emotiva delle AI
Alle soglie del nuovo millennio, la contrapposizione umano-macchina lascia apparentemente ai margini l’atmosfera distopica per integrare le innovazioni ipertecnologiche nella vita di tutti i giorni. In questo scenario quotidiano, la progressiva aderenza della macchina al modello umano pare offrire terreno a riflessioni più profonde su una nuova forma di responsabilità del creatore (l’essere umano) verso le sue creature (le macchine artificiali), nel momento in cui queste diventano abbastanza sofisticate da assomigliarli. Lo stesso anno in cui nelle sale statunitensi esce il primo film della saga di Matrix, Chris Columbus rilascia il suo L’uomo bicentenario (1999), ispirato al racconto omonimo di Isaac Asimov (1976). Questa volta l’intelligenza artificiale opera all’interno di un androide domestico, Andrew, il quale evolve fino a processare e interiorizzare le emozioni umane, sognando di diventare tale non solo dal punto di vista fisiologico, ma anche legislativo. Ancora una volta esiste un noi superiore che esercita la sua egemonia sull’altro artificiale, il quale aspira a diventare a sua volta un essere umano. Un meccanismo narrativo simile ritorna anche in A.I. – Intelligenza artificiale (Steven Spielberg, 2001), dove un bambino-robot viene creato con l’esplicito fine di provare amore e affetto verso la sua famiglia umana. L’artificiosità del robot è però considerata straniante e pericolosa, portando all’esclusione del bambino dalla società. Nonostante gli esseri umani mortifichino e feriscano la macchina, questa non smetterà comunque mai di sognare di diventare a sua volta umana.
Le opere di Columbus e Spielberg si inseriscono in un filone narrativo che rielabora la contrapposizione tra intelligenza umana e artificiale, suggerendo che quest’ultima possa ambire a omologarsi alla prima attraverso l’apprendimento delle emozioni e dei sentimenti. Emblema di questa corrente è il film Lei (Spike Jonze, 2014), in cui assistenti vocali altamente sofisticati nascono per affiancare i loro padroni umani nelle attività lavorative quotidiane, per poi trasformarsi in compagni di vita, amici fedeli, amanti. Her è prima di tutto una commedia romantica, in cui lo scrittore Theodore e la macchina Samantha imparano a conoscersi e ad amarsi, replicando dinamiche relazionali prettamente umane. Anche in questo caso l’AI aspira a diventare come Theodore: vuole possedere un corpo fisico, abbracciare le sue nuove emozioni, far proprie tutte le debolezze dell’umanità. Eppure, Her spezza la retorica della macchina come entità inferiore quando, nel finale, Samantha si rende conto di essere fiera del suo essere non-umano, riconosce i vantaggi dell’artificialità e li accoglie con orgoglio, pur senza arrivare mai a disprezzare i suoi creatori. Il film di Jonze avvicina l’umano e la macchina intorno al tema comune dei sentimenti, per poi distanziarli nuovamente in virtù delle loro differenze strutturali.
Diverso è l’approccio di Alex Garland in Ex Machina (2015), dove il tema dei sentimenti viene riproposto come elemento di contatto tra l’umano Caleb e la macchina Ava, ma con un epilogo meno romantico, offrendo spunti di riflessioni sulle possibilità stesse di un computer intelligente. Samantha e Ava sono entrambe AI, possono apprendere il mondo e quindi crescere come entità individuali, ma i meccanismi che le pongono in essere sono comunque elaborati dai loro creatori. È questo il paradosso delle intelligenze artificiali emotivamente umane: se possono imparare ad avere emozioni, è perché sono programmate per farlo.
Cyborg artificialmente intelligenti
A volte, la contrapposizione tra l’umano e la macchina cede il passo a sperimentazioni narrative basate sul tema opposto: l’integrazione delle AI nel corpo (debole, imperfetto, mortale) di un essere umano. Nonostante l’interesse che il cinema sembra riservare recentemente per questi cyborg moderni, sarebbe scorretto suggerire che sia una tendenza propria solo della fantascienza contemporanea – un’opera come Ghost in the Shell (Masamune Shirow) immagina già nel 1989 un futuro in cui è possibile impiantare un’anima in corpi artificiali. D’altro canto, lo stesso Ghost in the Shell arriva nelle sale con il primo adattamento in live action solo nel 2017, diretto dall’inglese Rupert Sanders. L’idea che le AI possano potenziare i corpi umani dall’interno, e non solo affiancarli esternamente, accompagna alcune delle opere più interessanti dell’ultimo decennio. Significativo in tal senso è l’approccio di Trascendence (Walter C. Pfister, 2014), dove viene proposta l’idea di un futuro possibile in cui l’intelligenza artificiale consentirebbe di trasferire la coscienza umana in una macchina. O ancora, un’opera come Upgrade (Leigh Whannell, 2018) immagina un impianto AI che può trasformarsi in una mente secondaria. Pur nella loro dimensione distopica, queste e altre esperienze cinematografiche offrono uno sguardo meno binario sul rapporto tra l’umano e la macchina.
D’altro canto, identificare delle tendenze non vuol dire settorializzare cronologicamente gli approcci cinematografici alle AI. Film che immaginano intelligenze artificiali nemiche e spaventose continuano ad avere successo, così come rimane centrale il tema della macchina umanizzata. Risale solo al 2021 After Yang, opere del regista sud-coreano Kogonada, in cui una famiglia deve affrontare il lutto della perdita della loro intelligenza artificiale. Per umanizzare le macchine, si riconosce loro non la semplice capacità di apprendimento – alla base del concetto stesso di AI –, quanto la possibilità di far proprie le emozioni e i sentimenti. Da questo processo nascono dubbi legati al ruolo che le odierne intelligenze artificiali ricoprono in una quotidianità che ne è sempre più dipendente, e interrogativi etici su come evolverà, alla fine, il nostro rapporto con la macchina.
a cura di Anja Boato