Sorry We Missed You
DATI DI PRODUZIONE
Sorry We Missed You, di Ken Loach, Regno Unito/Belgio/Francia (2019)
Sceneggiatura: Paul Laverty; produttrice: Rebecca O’Brien; fotografia: Robbie Ryan; montaggio: Jonathan Morris; scenografia: Fergus Clegg; costumi: Jo Slater; colonna sonora: George Fenton.
Interpreti: Kris Hitchen (Ricky Turner), Debbie Honeywood (Abbie Turner), Rhys Mcgowan (Seb Turner), Katie Proctor (Liza Jane Turner), Ross Brewster (Gavin Maloney).
SINOSSI
Ricky Turner è un padre di famiglia che ha sempre faticato molto nella sua vita. Tuttavia, a causa della crisi del 2008 che gli ha fatto perdere un lavoro stabile nel campo dell’edilizia, Ricky si trova sommerso dai debiti, senza una casa di proprietà e con due figli da mantenere. Un giorno, all’uomo si presenta l’occasione di intraprendere un lavoro a cottimo come fattorino: “tutto è una tua scelta” gli dirà Maloney all’assunzione, e Ricky accetta il lavoro convinto che esso possa segnare una svolta nella sua vita. Ma quella che sembra un’occupazione freelance si trasforma ben presto in una condizione insostenibile, tanto da cambiare anche il rapporto fra Ricky, i figli e la moglie.
TRAILER
COMMENTO
Definito dalla critica come il “De Sica del nuovo Millennio”, Ken Loach prosegue sulle corde del precedente e acclamato Io, Daniel Blake (2016) offrendo un ritratto vivido della realtà lavorativa dei corrieri al servizio delle multinazionali, a partire da vere testimonianze. “Scusa, ti abbiamo mancato” è il titolo del film e il biglietto che ogni fattorino lascia ad ogni pacco non consegnato, come un cecchino che sbaglia un colpo: ma a rimanere ferito non è il cliente, bensì il protagonista Ricky sia sul piano lavorativo, sia sul piano intimo. Il dramma di una famiglia inglese di Newcastle è la chiave di volta del lungometraggio, che si sviluppa entro spazi claustrofobici che producono la sensazione di essere in trappola, chiusi in una scatola nella quale si respira a malapena: l’angusta casa di famiglia, il furgone di Ricky, un ospedale sovraffollato. Negli unici momenti ambientati in spazi aperti si sviluppano scene, invece, che riguardano la libertà dalle regole, dalle scadenze, dalla tabella di marcia che Ricky è costretto a rispettare. Nonostante questi momenti liberatori, Loach mostra, mediante il suo stile realistico e diretto, la disgregazione di una famiglia inglese sotto lo sguardo impotente dello spettatore.
PREMI
- Gaudì Award 2021: Premio per il miglior film europeo (Rebecca O’Brien);
- Gopo 2021: Premio per il miglior film europeo (Ken Loach);
- BIFA Awards 2019: Candidatura per la miglior sceneggiatura (Paul Laverty), candidatura per il miglior attore (Kris Hitchen);
- Premi BAFTA 2020: Candidatura per il miglior film britannico;
- David di Donatello 2021: Candidatura per il miglior film straniero.
CRITICA
Arrivata a quasi trenta titoli, la vita umana e artistica di Ken Loach (qualcosa di più della carriera) si dimostra esemplare per virtù della coerenza. Sotto ogni latitudine (dal ’67 la Gran Bretagna ha subito maxi variazioni meteo e sociali) Loach ha sempre il coraggio di raccontare la vita faticosa di quelli che subiscono le imposizioni del potere, che cambia connotati ma non sostanza.
— Maurizio Porro, Il Corriere della Sera
Ken Loach ci mette di fronte a un film raro, implacabile; un film che, incredibilmente, non ti chiama solo alla sua visione come fanno tutti, ma a intraprendere con lui un’esperienza di vita reale. Si potrebbe dire che siamo di fronte a un oltrepassamento dell’orizzonte stesso di tutti i realismi del cinema. Lo sguardo qui non è sulla realtà ma nella realtà, dentro la realtà; esso si colloca all’interno di ciò che accade. Così quel che vivono i protagonisti ti si appiccica addosso e non c’è verso di prenderne le distanze.
— Fausto Bertinotti, Il Riformista
VOTA IL FILM
Vivere per lavorare o lavorare per vivere? Nella famiglia di “Sorry we missed you” entrambi i genitori sono vittime di turni di lavoro massacranti dove non sono più riconosciuti come esseri umani ma sono mezzi di produzione che devono rientrare in tempistiche precise e nulla è concesso, nemmeno il rapporto umano con le persone di cui la madre si occupa come badante. Questi contesti di lavoro disumani stressano le persone a tal punto da farle incrinare ancora di più i rapporti con il figlio adolescente, che nella fase delicata in cui è, nel pieno del suo momento ribelle, trova dei genitori presi totalmente dal lavoro e che li concedono attenzioni solo nei momenti in cui attira l’attenzione su di sé per mezzo di azioni via via più sbagliate. Prima il fatto di marinare la scuola, poi le botte con altri compagni di classe ed infine un furtarello che avrebbe potuto fargli avere una sanzione e la schedatura nei registri della polizia. Anche successivamente ad un agguato da parte di alcuni malviventi con annesso pestaggio del padre durante un turno di lavoro, con ancora ferite aperte sul corpo e costole fratturate, lui si sente in dovere di andare al lavoro per risolvere i numerosi debiti a carico della famiglia. E se bisogna arrivare fino a questo punto, ci si può forse chiedere “lavorare per vivere o lavorare per morire”?
Il film, crudo e realistico: il confine tra finzione e realtà, film e documentario, è sottile. Questo perché la pellicola non ha una lieto fine, non promette una conclusione felice, ma vuole essere portavoce di condizioni lavorative non tutelate. Si potrebbe dire molto riguardo questa tematica o le dinamiche che avvengono durante il corso della narrazione. Ma una cosa che “spicca” tra tutti gli ostacoli economici e familiari, sono i rari attimi di gioia rappresentati.
Un piccolo e labile barlume di felicità si intravede in due scene: una dove la figlia del protagonista (Ricky) lo accompagna a lavoro (e per questo lui verrà ripreso) e la seconda mentre padre e figli ridono e cantano insieme, dentro al furgone. Forse la cosa più angosciante del film, è proprio questa: anche i momenti di felicità sono racchiusi tra le pareti del veicolo, le stesse che diventano prigione della vita del protagonista, e quella della famiglia.
È un film drammatico ma per molti è la vita, la realtà che devono affrontare. In questi casi non si parla di persone lontane da noi, in altri Paesi, questa storia potrebbe riguardare un nostro vicino di casa. Il capo dice al protagonista “tutto è una tua scelta”, quando in realtà l’unica scelta è quella di accettare o no il lavoro. Una sorta di intraprendenza che ti fa finire in trappola, lui investe sia tempo sia denaro per un qualcosa che lo massacra e basta. Fa sicuramente riflettere…
Il film sorry we missed you nella sua cruda realtà, mette in scena la vita di molte persone al giorno d’oggi.
I lavoratori rappresentati sono privati di ogni diritto, sono lavoratori al nero per i quali non esiste né l’articolo 39 né una retribuzione chiara.
Il sogno iniziale di ricchezza del protagonista Ricky, la sua volontà di diventare imprenditore di sé stesso svanisce nel nulla, la realtà è un’altra.
Egli si trova costretto a lavorare 14h al giorno senza aver la possibilità di chiedere un permesso o una settimana di ferie per star vicino a moglie e figli.
Ricky non è libero, non è un lavoratore autonomo, è solo un uomo sfruttato dal sistema capitalistico, da datori di lavoro che trattano i loro sottoposti come dei semplici oggetti che necessitano di essere rimpiazzati.
Ricky deve lavorare talmente tante ore al giorno che arriva a perdere il lume della ragione, arrivando ad essere violento nei modi coi figli e con la moglie, costretta ad occuparsi della casa e della famiglia da sola, senza aver mai la possibilità di contare sulla figura a lei accanto.
La moglie è in difficoltà, il figlio si ribella, vuole che il padre torni ad essere la persona che era nel passato, un uomo felice e vicino alla sua famiglia, ma questo non può accadere. Ricky è talmente assuefatto dalla necessità di lavorare per ripagare i debiti che si trova costretto a lavorare anche in stato di convalescenza, dopo esser stato picchiato da un gruppo di ladri di pacchi; nessuno sconto per lui, o trova un sostituto in poco tempo oppure deve ritornare al lavoro.
Ricky non si rende conto che la vera ricchezza non sono i soldi, sono le persone, la sua famiglia che prova in tutti i modi a convincerlo di smettere di lavorare, i figli capiscono che il padre non è un modello da seguire eppure non riescono a salvarlo.
Il discorso della moglie alla fine del film è molto toccante, riassume in poche parole il sentimento di tutte le mogli vittime del sistema, vittime della crisi famigliare: “ mio marito non è un lavoratore autonomo, egli lavora per voi 14 h al giorno, questa è la vita della gente, questa è la vita della mia famiglia, come fate ad andare avanti così?”.
Trovo che questo film realizzi molto bene il senso di mancanza di tempo che subiscono i suoi personaggi. Seguendo i vari membri della famiglia giorno per giorno e le loro routine vediamo chiaramente come ciascuno occupa il suo tempo e quanto di questo sia passato a lavorare, per non lasciare alcuna energia, né tempo materiale per famiglia, svago o necessità impreviste, come una visita in ospedale. L’unica cosa che rimane è il desiderio di avere più tempo per poter lavorare ancora di più.
Se ti sembra troppo bello per essere vero, probabilmente è una fregatura. È un po’ questo il motto del film e della vita di Ricky Turner, padre di famiglia che dalla vita continua a prenderle fino a quando un giorno, trova un lavoro che- almeno sulla carta- dovrebbe poter permettersi il mutuo di una casa tutta sua nel giro di due anni.
Il lavoro all’inizio sembra perfetto o meglio, è abbastanza decente da fargli ignorare i vari problemi sul lavoro e saranno proprio questi ultimi a complicare non solo la vita di Ricky, ma anche dei suoi cari.
La fine del film, quando il protagonista coperto di bende e ferite del pestaggio subito neanche 24 ore prima torna sul suo furgone riprende in parte quel contrasto tra società dove si lavora per vivere e quelle in cui si vive per lavorare. La domanda però sorge spontanea, non esiste davvero una via di mezzo dove la propria salute mentale non valga soltanto un centinaio di sterline?