La classe operaia va in paradiso

DATI DI PRODUZIONE

La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri, Italia (1971)

Sceneggiatura: Elio Petri, Ugo Pirro; produttore: Ugo Tucci; fotografia: Luigi Kuveiller; montaggio: Ruggero Mastroianni; scenografia: Dante Ferretti; costumi: Franco Carretti; colonna sonora: Ennio Morricone.

Interpreti: Gian Maria Volonté (Ludovico Lulù Massa), Mariangela Melato (Lidia), Salvo Randone (Militina), Gino Pernice (sindacalista), Mietta Albertini (Adalgisa), Flavio Bucci (collega di Lulù), Luigi Uzzo (Napoli), Federico Scrobogna (Arturo).

SINOSSI

Ludovico Massa, detto Lulù, è un operaio di trentuno anni, di cui quindici trascorsi a lavorare come operaio presso la fabbrica B.A.N., mansione che gli ha procurato due intossicazioni da vernice e un’ulcera. Lulù è uno stakanovista, sostenitore del cottimo e restio ai movimenti operai e studenteschi che domandano a gran voce condizioni lavorative migliori: il suo unico scopo è registrare un rendimento che gli consenta di guadagnare abbastanza denaro per acquistare beni materiali. Ma quando un giorno, in fabbrica, Lulù rimane vittima della sua assoluta devozione per il cottimo, qualcosa in lui si spezza…

TRAILER

COMMENTO

Girato un anno dopo l’altrettanto controverso Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, il regista Elio Petri continua la sua riflessione sulla società contemporanea affrontando, in questo film del 1972, il dibattito concernente l’identità di classe, l’alienazione dell’individuo e la sua riduzione a mero meccanismo della società capitalista. Rinnovando il sodalizio artistico con lo sceneggiatore Ugo Pirro e “l’attore contro” Gian Maria Volonté, Petri indaga la condizione dell’operaio attraverso la figura di Ludovico Massa, detto Lulù, che a causa di un incidente in fabbrica si risveglia dal suo stato di totale asservimento nei confronti dei datori di lavoro. Gli stilemi propri della regia di Petri, quali l’antinaturalismo e l’uso frequentissimo dei primissimi piani (impiegati al limite del grottesco), sono funzionali alla caratterizzazione di individui – operai, famiglie sottomesse al regime della televisione, studenti accecati dai propri ideali, sindacalisti impacciati – che combattono loro malgrado contro il sistema. Secondo capitolo della cosiddetta “trilogia della nevrosi” – preceduto da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che indaga la nevrosi del potere, e seguito da La proprietà non è più un furto (1973), riguardante la nevrosi del denaroLa classe operaia va in paradiso si configura come uno spaccato della politica e della società italiana degli anni Settanta, il cui obiettivo non è solo individuare le incongruenze ideologiche abbracciate dagli studenti e dai sindacalisti presenti nel film, ma anche (e soprattutto) porre l’accento sulla “meccanizzazione” dell’individuo e sulla sua dipendenza verso il lavoro.

PREMI

  • Festival di Cannes 1972: Palma d’Oro (Elio Petri), Menzione Speciale a Gian Maria Volonté;
  • David di Donatello 1972: Miglior Film (Ugo Tucci), David Speciale a Mariangela Melato;
  • Nastro d’Argento 1972: Miglior Attrice Protagonista (Mariangela Melato), Miglior Attore non Protagonista (Salvo Randone);
  • Globo D’Oro 1972: Miglior Attore (Gian Maria Volonté).

CRITICA

Petri e Volonté sottraggono ogni mito alla classe operaia dell’epoca e il film fa emergere con chiarezza i conflitti che ancora oggi, sotto differenti forme e atteggiamenti, la sinistra si porta dietro. Il cinema di Petri si fa ancora una volta spiazzante, ancora una volta centrale nel cogliere le contraddizioni sociali, come già in Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto o come in molti altri dei suoi film, aggiungendo un’anima segreta alle proprie immagini che si fanno cupe e anticipatorie di quel drammatico futuro che già sembra intravedersi.

– Tonino De Pace, Sentieri Selvaggi

 

[…] con La classe operaia va in paradiso ci troviamo in un dramma claustrofobico, dentro un realismo crudo e cupo, il cui punctum non è tanto lo sfruttamento economico dell’operaio in fabbrica, ma l’espropriazione dell’umanità del lavoratore. Anche (e soprattutto, paradossalmente) fuori dal posto di lavoro.

– Jacopo Conti, The HotCorn

 

Film che ha disturbato la classe politica italiana in tempi di lotte operaie, La classe operaia va in Paradiso colpisce ancora oggi per la lucidità con la quale descrive l’alienazione del lavoro in fabbrica e le miserie umane che da esso derivano e lo abitano. Elio Petri si scaglia ancora contro lo Stato, dopo la spallata di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, avvalendosi dell’opera di Gian Maria Volontè, suo attore simbolo che qui regala al cinema un personaggio da antologia.

– Margherita Vetrano, Movieplayer.it

 

VOTA IL FILM

Rating: 3.84/5. From 32 votes.
Please wait...

12 thoughts on “La classe operaia va in paradiso

  1. ‘La classe operaia va in Paradiso’ è un film che ci proietta in un’epoca passata ma che trova molti punti di contatto con l’era in cui viviamo, durante la quale stiamo assistendo a una progressiva spersonalizzazione e a un sempre più frequente demandare delle funzioni umane alle macchine – ovviamente in termini diversi rispetto a quelli intesi da questa pellicola del 1971. Ho trovato davvero unico ed efficace il modo in cui la fotografia mostra la realtà della fabbrica, talvolta attraverso i ritmi incessanti, con primi piani sui volti alienati e allucinati del protagonista, deformati dalla fatica e dal pressante imperativo della produttività (mito che di certo non abbiamo smesso di inseguire), le inquadrature oblique o, ancora, i dettagli con focus sugli oggetti, protagonisti assoluti della catena produttiva e delle fatiche di Lulù e dei suo compagni operai, il cui lavoro in azione collettiva, infine, si condensa in un pezzo parzialmente assemblato che – con un cambio di inquadratura che diventa soggettiva, facendo così coincidere lo sguardo dello spettatore con quello del prodotto di fabbrica – viene trasportato via, verso altre destinazioni, da un altro operaio che obbedisce alla legge del dito. Forse perché, in quelle componenti d’acciaio, risiede, ormai perduta e irrimediabilmente separata dall’umano, una parte di vitalità di quegli operai alienati.

     
  2. Un film che riesce ad unire in sé aggettivi come grottesco, rumoroso e satirico. Rappresenta la realtà della gruppo operaio degli anni 70 nel bel mezzo delle rivolte studentesche e delle giovanissime rivolte dei primi sindacati. Le conseguenze dell’alienazione sul luogo di lavoro si ripercuotono sulla sfera privata dell’individuo che nel momento in cui si affida al fronte della ribellione, viene lasciato solo, perché lì non è l’individualità che conta ma solo la collettività. E sarà questo elemento che terrà insieme quei pochi cocci di umanità rimasta seppur in contesto ancora operaio ma che lega insieme tutti gli uomini vittime della volontà dei padroni come sono legati insieme gli operai lungo una catena di montaggio.

     
  3. Sin dalle primissime scene del film, quando si vede Lulù muovere la mano nel sonno come se stesse stringendo una leva, ho capito che “La classe operaia va in paradiso” avrebbe dato corpo — un corpo mutilato, affaticato, sgradevole — a tutte quelle nozioni di sociologia che, nella mia testa, erano solo questo, appunto, nozioni. Quella di Lulù & compagni è una realtà che mi è lontana, soprattutto per una questione di distanza temporale, ma il realismo estremo con cui la vita di un operaio e il funzionamento di una fabbrica vengono rappresentati mi assicurava l’autenticità di quella rappresentazione. In tutto il film, fra tutti i personaggi e i movimenti politici che rappresentano, vanno in scena continue contraddizioni: Lulù padre amorevole per un figlio non suo e assente per il figlio biologico; Lulù dipendente fiero e produttivo prima e amareggiato e alienato dopo; studenti e operai che si scontrano e si uniscono e si scontrano di nuovo. Il rumore, poi. Sopravvive qualche traccia di musicale propriamente detta, eppure è il rumore e il caos della fabbrica a dominare la pellicola. A conclusione del film, tenendo conto del documentario in programma, il mio interrogativo più grande era questo: quand’è che l’uomo diventa macchina? Anzi, cos’è che distingue davvero un uomo da una macchina se Lulù, in primis, quasi inaugurando la sua trasformazione in androide, si definisce una macchina al servizio della fabbrica?

     
  4. Ciò che più mi è piaciuto del film è l’assenza di retorica che di solito viene associata ai film “impegnati”, non viene eletto un buono o un cattivo ma mostrata solo tanta ipocrisia, umanità, ingiustizia e lotta per il necessario. Capisco perchè abbia fatto arrabbiare tanta gente, tra la rappresentazione degli studenti come “parolai infervorati” e dei sindacalisti come problematicamente moderati, ma è una rabbia necessaria che va integrata e metabolizzata come un lutto, poichè le contraddizioni sociali, politiche e personali all’interno del mondo del lavoro (purtroppo) non possono essere superate con soluzioni semplici.

     
  5. Un aspetto che ho trovato interessante del film è l’utilizzo del suono in rapporto ai temi trattati. Il volume era alto per quasi tutta la durata, si univano il rumore delle macchine, le grida degli operai, soprattutto del protagonista, le voci degli scioperanti e sindacalisti amplificate dai megafoni. Il volume alto è duplice perché caratterizza sia i macchinari, cioè la “prigione” degli operai, sia la voce alzata per farsi sentire e rivendicare i propri diritti, cioè uno strumento di libertà. Alla fine i due elementi si uniscono, perché il rumore delle macchine copre quasi completamente le grida degli operai, ma non impedisce loro di parlare. Direi che questo rappresenta il messaggio finale del film, cioè che la situazione non è cambiata, ma i personaggi si ritrovano con una nuova consapevolezza di classe. Infatti, Il film si apre e si chiude con la stessa sequenza di suoni (del prodotto fatto passare nella catena di montaggio) e ciò costituisce la chiusura del cerchio per il protagonista che finisce dove ha iniziato, ma ha abbandonato il suo individualismo per un senso di collettività.
    Ci sono pochi momenti in cui il rumore si calma, per esempio le scene davanti alla televisione, in cui tutti i personaggi si raccolgono davanti allo schermo e guardano in silenzio. Direi che questo rimanda all’idea della stanchezza fisica e mentale degli operai dopo il lavoro, che non hanno energie per altro nella giornata se non per consumare qualche ora di televisione.

     
  6. Ho trovato il film davvero interessante per la sua rappresentazione della questione operaia, ormai lontana nel tempo eppure tristemente simile a molte questioni che ancora affliggono il mondo del lavoro.
    Ciò che mi ha colpito di più è la rappresentazione della frustrazione senza consapevolezza, della rabbia senza direzione di persone che hanno sacrificato anima e corpo sull’altare del lavoro e non hanno ricevuto niente in cambio. L’inferno del lavoro in fabbrica, per come rappresentato in questo film, non ha via di scampo: gli studenti promettono uno sfogo, ma questo è solamente distruttivo e senza promessa di miglioramento. I sindacati sembrano avere più successo, ma si scopre presto che ottengono solo belle parole e inutili riconoscimenti, nessun cambiamento significativo.
    L’ho trovata una meravigliosa prospettiva sul vero significato dell’alienazione, sulla vera natura della perdita dell’umanità che, sebbene sia spesso discussa, è raramente compresa: non si tratta di perdita di emozione o apatia, che sono semmai il sintomo del vero problema. Si tratta di rinchiudere persone in sistemi per loro oscuri e incomprensibili, di privarle della prospettiva e delle energie necessarie per riflettere sulla loro condizione, di ridurle a bestie da soma: sfruttabili, prevedibili, magari talvolta pericolose per l’eccesso di frustrazione ed ira, ma mai capaci di realmente riconoscere la propria condizione di servitù, e quindi mai realmente capaci di liberarsene.

     
  7. — Il film:

    Rumore, rumore, e ancora rumore: non si placa, è assordante, fastidioso, a tratti quasi insostenibile.

    Credevo fosse il volume troppo alto all’interno dell’aula, e invece era il sottofondo sonoro del film. Già dalle prime scene della pellicola, infatti, entriamo insieme a Lulù, il protagonista, all’interno della fabbrica: lo accompagniamo, giorno dopo giorno, tra quelle quattro mura. Le inquadrature ravvicinate, le scene reali, non alterate, fanno apparire il film quasi come un documentario.

    Non ci vuole molto per rendersi conto della completa alienazione degli operai verso il loro lavoro, il quale potrebbe essere “fatto anche da una scimmia”, ci racconta fin da subito Lulù (ironica, a tal proposito, la scena dove uno dei personaggi mostra ai suoi colleghi la prima pagina di un giornale con esposta la foto di uno scimpanzè con su scritto che essa “finge di essere un uomo”, quasi a voler sottolineare la metafora con il lavoro ripetitivo e meccanico molto semplice da eseguire). Ma non solo: scopriamo dell’intossicazione da vernice e dell’ulcera del protagonista, vediamo la pressante richiesta dell’ingegnere di aumentare il ritmo di produzione, quasi non ci sorprendiamo quando Lulù va’ a trovare un ex dipendente della fabbrica in manicomio perché impazzito a causa del lavoro: “Quando ti ricoverano porta le armi”, dice l’ormai anziano signore a Lulù, dando per scontato che quest’ultimo, prima o poi, avrebbe fatto la sua stessa fine.

    La vita a casa con la famiglia è un disastro: la costante mania delle posate, che devono essere perfettamente allineate, come i pezzi della macchina, la pervasività del lavoro anche fuori dalla fabbrica. E all’interno di quest’ultima, Lulù sembra non avere nemmeno amici: lo considerano un venduto, un leccapiedi, uno stakanovista.

    E così, il protagonista, per mantenere alto il suo rendimento continua a ripetere a sé stesso la frase: “un culo, un pezzo”. Lui non si ferma, lavora, incessantemente e senza sosta, e poi tac di colpo si ferma la macchina. Ma lui no, non può fermarsi! Deve produrre, fare di più, deve andare, il cottimo! Non può perdere il suo amato cottimo! Ed ecco che trac il dito si spezza, e dal macchinario anziché grasso inizia a colare sangue, quello di Lulù, ormai rimasto senza dito.

    Qualcosa in lui si spezza: empatizziamo con lui, il quale magari fino ad un attimo prima abbiamo denigrato perché era un “leccapiedi” un “venduto al servizio dell’ingegnere”.

    Ed eccola lì, quella frase emblematica, le parole del cambiamento di visione della vita e del lavoro di Lulù, il quale alla domanda del suo superiore “Lulù, ma perché vai così piano, puoi fare di meglio, lo sai?” lui, calmo, risponde “Non è che non posso, È che non voglio”.
    La rottura è avvenuta. La prima pietra per cambiare il sistema è stata posta.

    Da lì il film prende una piega diversa: se prima Lulù era restio ai movimenti operai e studenteschi che domandavano a gran voce condizioni lavorative migliori, ora ne diventa il portavoce, facendosi addirittura licenziare, per poi essere riassunto, diventando il primo operaio che viene riassunto dopo il licenziamento per motivi politici.
    Nella seconda parte del film infatti vediamo la rappresentazione dei movimenti operai e studenteschi che hanno caratterizzato il cosiddetto “autunno caldo” in Italia (lo scenario era quello di gruppi di lavoratori stanchi e indignati per le loro condizioni, che si attivarono per rivendicare i diritti della classe operaia, spesso ispirati dal lavoro dei Quaderni rossi, un gruppo interno al Partito comunista italiano: forse è per questo che nel film possiamo vedere per qualche secondo, in una scena, il ritratto di Stalin conservato a casa di Lulù?).
    Alla fine della pellicola Lulù migliora sia la sua condizione lavorativa che sociale: ha degli amici, in famiglia sembra andare meglio. Tuttavia, in questo film il lieto fine non c’è: perché quel cambiamento è solo l’inizio.

    — La riflessione sul tema:

    “Infatti i fiori della prima volta
    Non c’erano già più nel sessantotto
    Scoppiava finalmente la rivolta”

    Ecco le parole che mi sono affiorate alla mente nelle prime scene del film: sono strofe tratte da “Eskimo”, del cantautore Francesco Guccini. Mi sono venute in mente perché questa pellicola è stata girata nel 1972: il periodo è quello del cosiddetto movimento del 68’ (insieme di grandi movimenti di massa socialmente eterogenei di studenti, operai, intellettuali, politicamente schierati che contestavano imposizioni e istituzioni).

    Ecco perché, questo film mi ha fatto riflettere principalmente su due cose:
    in primo luogo, che noi qui, tra i banchi universitari, non siamo esenti da questa tematica: questo film sì, ci parla della classe operaia, ma ci parla del 1972, del 68’, un movimento che ha caratterizzato l’unione e la protesta di studenti, proprio come noi.

    In secondo luogo, che ad oggi, seppur ci siano tutele e diritti che i personaggi del film (così come gli uomini e donne che essi interpretavano) a quei tempi sognavano,
    quanti Lulù hanno effettivamente perso un dito, un braccio o la vita per poter donare a noi un futuro migliore, basato su maggiori tutele e diritti? Quanti sono e potrebbero essere ancora vittima di un sistema basato sulla produzione e sul profitto a scapito della salute (sia fisica che mentale) dei lavoratori?

    Grazie a chi ci ha preceduto abbiamo ottenuto tanti diritti, eppure, sembra che non ci rendiamo conto fino in fondo, di come questi siano stati ottenuti.

     
  8. Sono rimasta soddisfatta dalla visione del film “La classe operaia va in paradiso” e non pensavo che il cinema potesse avere una correlazione così forte e dirompente con i temi trattati. Ambientato negli anni ’70-’71, mostra l’aspetto negativo sulla vita degli operai del consumismo. Lo possiamo definire un film rumoroso, che grida alle ingiustizie della vita durante gli anni Settanta, rappresenta la lotta, un confronto politico violento e una conflittualità fisica. Ci illustra come l’importanza del singolo individuo viene messa da parte a favore di una collettività non ben definita. Non si riesce bene a definire in quale area collocare questo film, a tratti grottesco, comico e tragico. Affronta il tema attuale del mondo lavorativo: si afferma l’esigenza di voler trovare un lavoro che sia portatore di senso e di crescita, che si concili con la vita affettiva degli individui. L’unico difetto che ho riscontrato è il cercare di comprendere le frasi dette in dialetto.

     
  9. Caotico, confusionale, lungo, forte, pesante, pieno di emozioni contrastanti e bipolari, e proprio per questo perfettamente e chiaramente evocativo e ricco di simbolismo. Un film, purtroppo, ancora oggi fortemente attuale, il cui protagonista potrebbe essere quasi per tutti i versi identico, anche se inserito in un contesto sociale molto diverso, ad un comune operaio (ma non solo) contemporaneo. Oggi come allora, la distanza tra lavoro e vita personale si riduce sempre di più, fino a diventare inesistente: la sfera privata (come può essere una relazione più o meno romantica) entra nei luoghi di lavoro, mentre le preoccupazioni, la stanchezza, le tensioni e la ripetitività del lavoro (o la fine della ripetitività, causata dal licenziamento) sfondano (per certi versi quasi concretamente, ad esempio nel gesto dei colleghi di bussare con forza alla porta di casa di Lulù) le mura domestiche, attaccando il comune operaio perfino nei momenti di sonno e del riposo serale.
    Velocità, qualità e quantità, tre caratteristiche inconciliabili e reciprocamente escludibili, devono necessariamente coesistere, in questo ritmo sempre più serrato che riduce ogni singolo operaio ad un numero, legato al proprio rendimento sulla macchina assegnata.
    A distanza di 50 anni, questa grandissima opera cinematografica sa quindi ancora lasciare delle domande in sospeso e, certamente, dell’amaro in bocca.

     
  10. Cominciamo col primo dei due film che deve commemorare la giornata mondiale della giustizia sociale (20 febbraio) un classico che sa rappresentare incisivamente la condizione dei lavoratori che oggi per certi versi è anche peggiorata, poiché, essendoci difficoltà a trovare lavoro, ci si lascia trattare in tutti i modi più disumani. Perlomeno allora c’era chi scendeva in piazza ad urlare di non farsi portare via la vita, di pretendere più soldi e meno lavoro perché per i lavoratori il sole non splende mai ed essi possono solo annichilirsi davanti alla tv, come capirà anche l’efficientissimo protagonista Lulù, la cui dolorosa presa di coscienza comincia dopo la perdita di un dito e il confronto con un amico che è finito in manicomio per il troppo lavoro. Grandi interpretazioni e un grande affresco di quegli anni con cui non possiamo non fare i conti.

     
  11. Vedere oggi “La classe operaia va in paradiso” permette di avere una visione di come tale tema veniva affrontato negli anni ’70 ma soprattutto permette di fare un confronto sull’evoluzione di tali problematiche e sui punti di contatto con l’attualità. Questo film critica il lavoro in fabbrica mostrando come gli operai siano visti solo come ingranaggi di qualcosa di più grande e anzi sono loro stessi delle macchine costrette a ripetere le stesse azioni tutto il giorno e tutti i giorni. Macchine a cui non è concesso fermarsi, condannate a non vedere la luce del sole e a rischiare la vita ma soprattutto la sanità mentale. Il film infatti mostra il declino psicologico dei vari personaggi, e di come le condizioni del lavoro in fabbrica condannino inevitabilmente alla pazzia i lavoratori. Lulù, il protagonista del film, da dopo l’incidente che lo porterà a perdere un dito, si rende conto di ciò e proverà ad opporsi alla propria condizione. Ma i suoi tentativi di ribellarsi allo sfruttamento che lui e gli altri operai stanno subendo lo porteranno soltanto ad essere abbandonato da tutti, anche da coloro che avrebbero dovuto aiutarlo a combattere per i suoi diritti, costringendolo quindi ad abbracciare il suo ruolo nella fabbrica e l’inevitabile pazzia a cui è condannato.

     
  12. Il film “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri mostra molto bene la condizione degli operai nelle fabbriche negli anni 70.
    Lulù, protagonista del film è un maniaco del lavoro a cottimo, tutta la sua vita è improntata su di esso, tanto che non ha una vita sociale: non dedica tempo né a suo figlio biologico, né alla compagna.
    Un giorno, mentre Lulù sta lavorando, si rompe un dito ed inizia improvvisamente a prendere coscienza della propria alienazione, decidendo, quindi, di aderire alle proteste degli studenti e di alcuni operai della fabbrica contro il lavoro a cottimo.
    Lulu viene così licenziato dal lavoro e la sua compagna decide di andarsene di casa.
    Tuttavia, i suoi compagni riescono a farlo riassumere in fabbrica alla catena di montaggio.
    Per cui si può dire che vi è una sorta di circolarità: infatti, tutto torna esattamente come era all’inizio: Lulù e i compagni che lavorano con il rumore dei macchinari come sottofondo.
    Ho trovato questo film interessante in quanto emergono diverse tematiche ancora oggi molto importanti:
    -la dimensione collettiva del lavoro e il completo annullamento della dimensione individuale dell’individuo: Lulù non ha più rapporti con la compagna e non si interessa del figlio biologico;
    -il rapporto fra uomo e macchine: l’operaio è sottoposto all’alienante e costante lavorazione in serie di prodotti;
    -il rapporto fra lavoratore e azienda, che è di totale subordinazione.
    Un aspetto che mi ha colpito sono state le inquadrature sui volti apatici e vuoti degli operai per mostrare la stanchezza fisica e psicologica, il tutto accompagnato da un sottofondo sonoro assordante per tutta la durata del film.
    Nonostante questo film faccia riferimento a una dimensione storica ben precisa, che è quella degli anni 70, a oggi ci troviamo di fronte a una situazione simile per quanto riguarda le condizioni degli operai, costretti a lavorare per molte ore al giorno, sacrificando la loro vita privata a costo di un salario.

     

Leave comment

Your email address will not be published. Required fields are marked with *.