After Work
DATI DI PRODUZIONE
Titolo originale: After Work. Paese: Svezia/Italia/Norvegia. Anno: 2023. Durata: 77′. Regia: Erik Gandini. Produttore: Jesper Kurlandsky. Fotografia: Fredrik Wenzel, Fsf. Montaggio e colonna sonora: Johan Söderberg. Produttore musicale e arrangiamenti: Christoffer Berg. Sound designer: Jørgen Bergsund, Rikard Strømsodd. Sound recordist: Chiara Andrich.
SINOSSI
Attraverso le esplorazioni condotte in Kuwait, Corea del Sud, Stati Uniti d’America e Italia, il documentario di Erik Gandini riflette sul significato del lavoro nella società contemporanea. A fronte delle rapidissime evoluzioni tecnologiche, e della conseguente automatizzazione del lavoro, il film indaga la contemporanea “dipendenza dal proprio impiego”: in diverse parti del mondo, gli individui vivono una condizione che impedisce loro di immaginarsi privi di una giornata lavorativa prestabilita, nonostante lo stress psicofisico che essa comporta. Con l’avvento delle nuove tecnologie che tramuteranno alcune posizioni lavorative da necessarie a superflue, Erik Gandini cerca di immaginare un’umanità che non deve più lavorare…
TRAILER
COMMENTO
Attraverso un approccio esistenziale e curioso, il regista Erik Gandini indaga il rapporto tra umanità e lavoro, all’alba della sempre maggior pervasività dell’intelligenza artificiale e dell’automazione di alcune mansioni. A partire dalla longeva convinzione che il lavoro determini le identità umane, After Work immagina un futuro in cui ogni individuo potrà (potenzialmente) divenire obsoleto, nei termini delle sue capacità produttive all’interno della società capitalista. Pur lasciando in sospeso molti interrogativi, il regista di Videocracy (2009) affronta, con una buona dose di umorismo, diverse “prospettive sul lavoro”: attraverso interviste a individui provenienti da diverse parti del mondo, che si fanno portavoce di specifiche tendenze nazionali, Gandini esplora alcune condizioni esistenziali determinate dalle professioni svolte dagli intervistati. All’ossessione verso il lavoro che imperversa in Corea del Sud si contrappone il gruppo di “NEET” (Neither in Employment, Education or Training) che registra nella classe media italiana la sua quota più alta in Europa. In seno a questo sguardo transculturale, Erik Gandini opera sulle corde del “What-if?”: cosa faremo quando non dovremo più lavorare? La riflessione (poco accomodante) sul futuro di un’umanità disintossicata dal lavoro, condotta principalmente mediante la tecnica dell’intervista, si contrappone l’impiego della macchina da presa fissa, immobile, a immortalare ambienti di lavoro e grandi aree urbane e naturali empie, prive di esseri umani “all’opera”.
PREMI
- Chicago International Film Festival 2023: Candidatura come Miglior Documentario (Erik Gandini);
- Docville 2023: Candidatura come Miglior Documentario nella categoria “Topics” (Erik Gandini).
CRITICA
After Work è un film guidato dalle idee, più che dai personaggi. Eppure, ha trovato persone immensamente affascinanti con intuizioni nate da esperienze reali. La maggior parte del dibattito sul futuro del lavoro è dominato da tecnici e teorici, esperti di IA e automazione. Al regista non interessa la tecnologia, il suo approccio è esistenziale. Ha cercato di evitare quasi completamente la prospettiva tecnologica, concentrandosi invece su quella umana.
– Leonardo Lardieri, Sentieri Selvaggi
Tramite sguardi fissi su uffici, centri commerciali e intervistati che guardano direttamente nell’obiettivo, After Work possiede un’estetica tutta sua, derivata dall’ottima fotografia di Fredrik Wenzel, e accompagnata da una colonna sonora di tutto rispetto composta da Johan Söderberg. Il film dice tanto. Mostrando chi fa troppo e chi non fa nulla, mostrando il futuro attraverso il presente con un’ottica assolutamente priva di giudizio, lasciandolo quindi allo spettatore, che alla fine è lasciato con una domanda alla quale nessuno riesce a trovare una risposta.
– Nicolò Pollachini, Taxi Drivers
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Persone totalmente asservite al lavoro che non riescono a vivere. Persone comunque contente di sentirsi utili. Persone che non hanno bisogno di lavorare ma che sanno comunque come impiegare il tempo. Persone pagate per non lavorare che si sentono inutili. E poi ancora stress e malattie da lavoro, paura di prendersi pause, la scarsa importanza data all’istruzione, giovani che non investono su se stessi ne lavorando ne studiando. Di tutto questo ci parla questo film e ci pone una domanda fondamentale. Cosa faremmo se prendessimo uno stipendio senza dover più lavorare? Io non credo che il problema sia nel non voler lavorare, nel volersi solo divertire, cioè per alcuni lo è, ma i più vorrebbero semplicemente trovare un lavoro che corrisponda alle loro passioni, che li valorizzi, un lavoro che non devono subire come un castigo o una piaga. E ricevendo comunque lo stipendio potendo fare quel che si vuole, si potrebbe leggere molto, andare al cinema, scrivere, passeggiare, organizzare qualche viaggio sponsorizzato da qualche ente benefico per fare del bene e intanto fare un blog e andare a fare poi interviste a KILIMANGIARO, studiare senza doversi preoccupare di dove li trovi i soldi, ampliare la propria anima, le proprie conoscenze… quelli che non sanno come impiegare il tempo non li capisco proprio… io neanche durante il lockdown ho avuto tutto il tempo che mi serviva eppure l’ho impiegato fino all’ultima goccia.
Il film è interessante perchè da’ modo di scoprire realtà lavorative completamente diverse dalla nostra, passando da Paesi in cui non vengono rispettati i diritti primari dei lavoratori ad altri in cui i dipendenti si recano sul posto di lavoro ma di fatto non hanno modo di fare nulla. La domanda con cui si chiude il docufilm, poi, lascia spazio alla riflessione personale.
“After Work” è un documentario di Erik Gandini uscito nel 2023 che raccoglie le testimonianze di alcuni lavoratori provenienti da contesti e ceti sociali differenti fra loro. Offre una panoramica che ci illustra le realtà professionali della Corea del Sud, dell’Italia, degli Stati Uniti e del Kuwait. La domanda che viene posta è: “Come cambierà la vita in un’epoca che possiamo quasi definire del post lavoro?”.
Ogni narrazione dei personaggi contribuisce ad una riflessione sulle cause culturali e sociali del tempo del lavoro. Il documentario esplora il lavoro come causa del tempo sottratto alla vita relazionale. “After Work” offre al pubblico elementi attuali per comprendere e disegnare il futuro prossimo lavorativo, narrando aspetti rilevanti sull’ideologia e sull’etica del lavoro, nonché del rapporto tra la vita e la professione. Il documentario è ambientato nel presente, ma vuole creare una proiezione sull’avvenire, offrendo una visione sul mondo del lavoro odierno e sulle sue possibili evoluzioni.
Guidato dalle idee più che dai personaggi, “After Work” si presenta come un’opera cinematografica che invita alla critica delle concezioni del lavoro contemporaneo, offrendo uno sguardo profondo sul modo in cui il lavoro definisce le nostre esistenze. Si tratta di un documentario che fa riflettere e suscita delle discussioni rilevanti su un tema cruciale per la nostra società.
Descriverei il film ‘After work ‘ con una parola , angoscia.
Questo è il sentimento che ho provato durante tutta la visione del film, angoscia relativa al fatto che il mondo rappresentato è il mio mondo, il mondo in cui vivo e in cui coltiverò il mio futuro.
Si può affermare che nel film si susseguono varie visioni del mondo lavorativo relative a culture disparate e nessuna apporta un minimo di speranza nel cuore dei giovani.
Salvo rari casi, le persone intervistate presentano il lavoro come una componente opprimente nella vita dell’uomo.
In Korea il lavoro è totalizzante, il fine della vita di ogni persona è quello di avere un’occupazione; questo assunto porta inevitabilmente a delle conseguenze tra le quali l’alto tasso di suicidio e l’infelicita nelle vite domestiche.
Non c’è grande rassicurazione neanche nel mondo americano dove la filosofia di vita è: “più è meglio è, essere sempre occupati” , l’etica del lavoro di natura calvinista e l’ansia teologica della dannazione porta gli americani a provare un sentimento di colpa di fronte alla pausa lavorativa; lavorare sempre e comunque.
In ultimo ho trovato interessante anche il caso del Kuwait, dove le persone sono poco appagate del lavoro che svolgono, in particolare nel settore pubblico, i lavoratori si sentono inutili, non si sentono parte del processo di produzione, non trovano godimento in un lavoro che loro stessi hanno scelto e che apprezzano.
Il paradosso qui sta nel fatto che le persone ricevono grandi stipendi per passare il loro tempo a leggere e guardare film e lasciano altri lavori considerati ‘ immorali ‘ agli immigrati.
Purtroppo la soluzione al dilemma è difficile da immaginare, le differenti visioni del mondo riguardo il reddito di base o l’accettazione (o meno ) dell’automatismo nel sostituire gli umani in lavori pericolosi e inutili, mostra come la questione sia tutt’oggi altamente problematica.
Mi ha stupita particolarmente il silenzio degli intervistati di fronte alla domanda finale ‘ Avendo un sostegno economico mensile senza lavorare cosa faresti ? ‘ effettivamente credo che questo non sia il fine che si voglia raggiungere, io come studentessa universitaria vorrei poter mettere a frutto le conoscenze che sto acquisendo nel corso dei miei studi.
Certo, avere un sostegno base mensile permetterebbe a noi giovani di non accontentarci del primo lavoro che ci capita solo per avere uno stipendio ma di puntare più in alto, scegliendo un lavoro che ci appaga da ogni punto di vista.
La tematica del ruolo del lavoro nelle nostre vite e nella società è una che spesso viene affrontata in prospettiva prettamente presente, mentre questo film fornisce punti di vista atti anche a dibattere sul futuro della questione. E’ mia opinione che diversi paesi saranno in grado di raggiungere lo stato di post-scarsità prima della fine di questo secolo, quindi ho trovato questo film un interessante e stimolante promotore di discussione.
“After Work” di Erik Gandini ci mostra i molteplici volti che il lavoro può assumere, da nobilitazione e occasione di realizzazione per l’individuo a una vera e propria prigione di cui i lavoratori sono incapaci di liberarsi, ormai profondamente inglobati nell’inesorabile vortice proteso alla produttività. Ma se l’essere umano smette di dedicarsi a sé, alla cura dei propri affetti, rinuncia ai momenti di socialità, che cosa rimane di umano? Crono divora tutto ma sta all’uomo trovare la giusta motivazione per “strappargli via” del tempo, come scriveva Orazio. Cosa farebbero i lavoratori con questo tempo ritrovato? Che il mito della produttività abbia ormai messo radici troppo profonde nella nostra società? Sebbene non riguardi il contesto lavorativo, mi viene da pensare a quando, durante il lockdown del 2020, moltissimi studenti, ritrovandosi con tanto tempo libero per via delle tante attività annullate, si siano gettati a capofitto negli impegni accademici, seguendo ritmi di studio eccessivi di cui ancora oggi alcuni pagano il prezzo. Servirebbe una vera e propria educazione al benessere – mentale, individuale e collettivo – che, per fortuna, è una tematica che sta molto più a cuore alla nostra generazione rispetto alle precedenti, probabilmente ancora legate a un’idea di lavoro come semplice strumento per la soddisfazione dei bisogni e mezzo per la sopravvivenza. Si tratta di un cambiamento che ha bisogno di una lunga preparazione e, considerando che ancora oggi vi è la tendenza a connotare gli individui attraverso la loro professione (lasciando fuori dalla considerazione ogni potenziale, valore, hobby, interessi, che semmai pervengono in subordine), il cammino da fare è lungo. Ma penso ci siano buone premesse.
After Work, di Erik Gandini è un docufilm a mio parere stimolante, permette di avere uno spunto di come è il lavoro in altri paesi e di riflettere su alcune tematiche che vertono attorno al mondo del lavoro. Già dall’inizio fa riflettere, si parla di Carpe diem e di come il tempo sia la nostra risorsa più preziosa.
Altro spunto di riflessione è dato dal paragonare lo stacanovismo all’alcolismo, in quanto anch’esso dipendenza, credo di non averci mai pensato in questi termini…
Molto Interessante anche il collegamento al reddito di base, introdotto nel film da una clip di Elon Musk (scena che vuole essere provocatoria, secondo me) e che mi lascia ancora con tante domande e curiosità in quanto non riesco a trovare una posizione a riguardo. (A quanto pare non solo me…).
Queste sono le parti che ho gradito maggiormente, ma anche l’intervista al kuwaitiano (?) non è stata da meno…
Invece, lo considero poco esaustivo sulla questione dei giovani italiani e il loro primo contatto con il lavoro (post università), e di quanto siamo considerati “vergini” e non un’innovazione o più semplicemente una ventata d’aria fresca.
Infine il dibattito è stato davvero fruttuoso, in particolare mi è piaciuto l’approfondimento sul capitalismo nano della nostra provincia e delle piccole imprese che non si innovano ma fanno da terziste’
Il lavoro diventa la nuova droga che crea dipendenza. “After work” tra il film ed il documentario, racconta un pattern di diversi modi di vivere ed affrontare il mondo del lavoro in diverse parti del mondo. Si conclude con una domanda aperta che spinge ad una riflessione, facendoci soffermare su come ogni realtà si scontri con le etiche lavorative della società di appartenenza da cui spesso le nuove generazioni vogliono liberarsi. Tra la necessità di lavorare che ha portato diverse generazioni di coreani a lavorare fino a 14 ore al giorno e gli americani a sviluppare una cultura dove il tempo impegnato diventa un requisito positivo “sintomo” di una persona “di valore”, ci sono iniziative che cercano di limitare l’impegno lavorativo all’orario di lavoro tradizionale di 8 ore spegnendo i dispositivi dei dipendenti e costringendoli a dedicare tempo alla loro famiglia o ai loro hobby, ma non tutti ne sono in grado.
Questo film offre un’ampia visone sulle differenze culturali relative alla concezione di lavoro e mostra come diverse situazioni lavorative possano essere per alcuni causa di felicità o di infelicità.
Mostra persone felici con il proprio lavoro e persone infelici nel proprio lavoro. Mostra persone felici di non lavorare e persone infelici di non lavorare, il tutto viaggiano nel mondo, dagli Stati Uniti all’Italia, dalla Corea al Kuwait.
La domanda fondamentale del docufilm è “cosa fareste se esistesse un reddito universale?”. Se si venisse pagati a prescindere. La possibilità di non lavorare non è la possibilità di non lavorare ma la possibilità di fare un lavoro che sia la rappresentazione di ciò che sogniamo di fare. Alcuni esperimenti sul reddito universale sono stati fatti e hanno dato risultati positivi, se le persone possono permettersi di non cercare un lavoro in base al guadagno, in base ai costi della vita, allora troveranno il lavoro dei loro sogni anche se questo permette di guadagnare poco. Chi vuole aprire una libreria che sia anche un caffè, chi vuole intagliare il legno, chi vuole dedicarsi tutta la vita agli studi, chi vuole diventare elettricista, muratore, boscaiolo, fare il pastore, rimanere a casa e occuparsi dei figli. Chiunque avrebbe la possibilità di essere felice e, in un mondo pieno di persone felici e appagate, probabilmente molti altri problemi attuali si risolverebbero. Il mondo è pieno di persone infelici, la cui situazione emotiva sfocia in cattiveria gratuita, frustrazione, problemi psicologici e fisici.
Vivere per lavorare o lavorare per vivere?
Il film esamina una realtà dove tutti abbiano la possibilità di ricevere uno “stipendio” fisso pur non lavorando, avendo così a disposizione tutto il tempo libero che chiunque nei periodi più stressanti dell’anno vorrebbe avere. Chi non ha pensato almeno una volta, in una giornata cupa e piovosa, di non andare al lavoro e di poter decidere di partire per un posto caldo e lontano dalle preoccupazioni della vita quotidiana?
Da una parte il film mostra diverse realtà e tra queste, anche quella americana dove si vive per lavorare e dove se non si lavora non ci si sente appagati;dall’altra invece mostra la realtà coreana dove si lavora per vivere, perché senza lavoro sembra di non star vivendo.
La vera domanda è non c’è una via di mezzo, dove i giovani possano non dover scegliere tra queste due opzioni agli estremi del mercato del lavoro e avere la possibilità di non dover scegliere tra le proprie passioni e l’avere un tetto sulla testa?
Sarebbe bello trovare un equilibrio tra il vivere per lavorare e il lavorare per vivere che si adatti ai giovani di oggi che scappano in cerca di un futuro migliore che non si sa ancora dove sia
Questo docufilm presenta diversi contesti (dal punto di vista culturale, economico ecc) e perciò diversi modi di vedere il lavoro. Chi ha il privilegio di non dover lavorare desidera “tenersi occupato”, chi è costretto a lavorare 12 ore al giorno è esausto fisicamente e mentalmente, chi ha diritto al lavoro ma solo “di facciata” (come in Kuwait) è insoddisfatto. Per questo non credo che sia possibile una risposta unica alla domanda “cosa faresti se non dovessi lavorare?”. Credo che oggi in particolare ci sia una continua tensione tra il desiderio di ottenere stimoli e soddisfazione attraverso il lavoro e la pressione schiacciante che questo può esercitare sulla nostra vita, sul tempo libero e sulle relazioni con gli altri. Questa duplicità è esplorata dal film nelle sue diverse forme; esso offre una panoramica del lavoro oggi, senza però fornire molti spunti su dove andrà il lavoro domani.
Pensavo che “Afterwork” di Gandini si lanciasse in una speculazione sui progressi dell’automazione e relativa applicazione ai più svariati ambiti lavorativi e che quindi offrisse un ritratto di questi nuovi operai. Pensavo male, perché “Afterwork” è centrato sul presente e offre solo una sbirciata al futuro, un’occhiata rapida ai possibili scenari che “si contendono le nostre vite mentre noi le stiamo lì a guardare”, canta Cremonini.
Per tutta la durata di “Afterwork” veniamo messi a parte di varie culture lavorative e di come queste considerino e pesino tempo del lavoro e tempo libero/del divertimento. Si rimane sbalorditi al limite della risata nervosa per l’ossessione per la performance (e il terrore del dopo lavoro) degli Stati Uniti. Si prova pena e comprensione di fronte allo stacanovismo incontrollato della Corea del Sud e confusione e imbarazzo quando a parlare sono due dipendenti governativi del Kuwait. Se questo è il risultato, siamo davvero sicuri che identificarsi anima e corpo nel proprio lavoro sia sano? E lo chiedo da persona che, da una parte, desidera un impiego appagante in cui mettere a frutto anni di studio e sacrifici economici e che, dall’altra, non vede poi così male la prospettiva di trovare un lavoro che le piaccia sì, ma che allo stesso tempo le permetta di portare avanti le sue passioni.
Concludo dicendo che se c’è una cosa che proprio non riesco ad accettare di “Afterwork” è la rappresentazione stereotipata dell’Italia: l’ereditiera che fa la bella vita e che vuole imparare a saldare perché le piacerebbe produrre qualcosa; la sua controparte maschile prova a fare ammenda per il privilegio in cui è nato dedicandosi al giardinaggio; il compagno della suddetta ereditiera che ciancia di meritocrazia forte del suo essere un self-made man; una marmaglia di giovani festaioli nullafacenti e felici di esserlo. Davvero siamo ancora a questo?
Nel film si possono vedere diverse mansioni lavorative, diverse etiche e culture del lavoro, di approcci di vita e di valori associati al tempo libero.
E poi, verso la fine del docufilm, una sola domanda, posta a loro, ma anche a noi spettatori:
“e se tu avessi uno stipendio senza lavorare, se ci fosse un reddito universale per tutti, tu cosa faresti?”
Forse non esiste una risposta univoca a questa domanda, perché implicherebbe ulteriori riflessioni, su diversi aspetti, tra cui:
– le differenze tra un lavoro e un altro: ci sono lavori che corrispondono alla vocazione personale e allo scopo di vita della persona, ma anche lavori usuranti e deleteri che hanno come unica funzione quella di essere fonte di sostentamento;
– si può stare senza lavoro, economicamente parlando, ma non si può stare senza un’occupazione: che senso attribuiremmo alle nostre giornate e allo scorrere del tempo, quale sarebbe la nostra “missione”?
– le macchine, i robot, l’AI, potrebbero davvero sostituire il nostro lavoro in maniera totalizzante? L’arte e la creatività che fine farebbero? Diventeremmo tutti pigri e oziosi come nel cartone animato WALL-E?
Credo che questo docufilm mostri qualcosa che è sotto gli occhi di tutti, quotidianamente, ma di cui forse non ce ne prendiamo abbastanza cura: il nostro tempo.
<> ci dice uno dei “personaggi”. Forse, più che sulla questione del reddito, il film ci invita a riflettere sul valore del tempo, della vita, delle relazioni. Perché di fatto, lavorare è ciò che permette di avere uno stipendio, di sopravvivere ma anche di vivere. Ma la scelta del “vivere per lavorare” è puramente un costrutto umano, sociale, una struttura di vita imposta. Così, alla domanda posta sopra (ossia “cosa faresti se avessi uno stipendio senza lavorare?”) la maggior parte delle persone si trova in difficoltà a rispondere, perché purtroppo, dedica la maggior parte del tempo della vita al lavoro, e solo una frazione di questo, a ciò che gli piace fare.
E talvolta, come abbiamo visto nel docufilm, pochi sanno davvero “cosa fare” (che non sia lavorare, s’intende).
Documentario che ci mostra realtà tanto estreme da sembrarci quasi assurde, After Work è il punto di partenza ideale per una discussione tutt’altro che utopica e appartenente ad un futuro lontano. Attraverso un vivido e complesso susseguirsi di scene di vita quotidiana di lavoratori (e non) provenienti da diverse parti del mondo, lo spettatore si trova costantemente a dover ribaltare la propria risposta al fatidico dilemma, esplicitato solo negli ultimi istanti proprio per lasciare ancora aperto il dibattito anche interno ad ognuno. Non esistono risposte giuste ne sbagliate, solo una moltitudine di punti di vista anche opposti riguardo un’esigenza sempre più centrale nelle nostre vite, ovvero come conciliare lavoro e vita privata. Qui, in realtà, si mette totalmente in dubbio l’esistenza stessa di un lavoro, sostituito (o sostituibile) da un reddito universale che ci permetterebbe di vivere in un perenne stato di “tempo libero” da dedicare ad ogni possibile svago e passatempo, dalla semplice lettura di un libro ad un viaggio dall’altra parte del mondo. Ma riusciremmo a vivere senza mai lavorare, o ne sentiremmo il bisogno? In molti si sentono realizzati grazie al proprio lavoro, ma è veramente grazie al lavoro o è solo un costrutto sociale che siamo abituati a seguire?
La classe operaia (o chiunque impegnato in lavori manuali), come qualcuno ha fatto notare in sala, forse si trova già in paradiso, dato che è totalmente esclusa dalle riprese, se non per qualche richiamo indiretto da parte di altri protagonisti del racconto. Sicuramente, se fosse rientrata tra gli intervistati, avremmo avuto risposte molto diverse da quelle ottenute, e per ragioni chiaramente evidenti.
Il film “After Work” di Erik Gandini è un film che, attraverso l’intervista a diverse persone nel mondo, mostra le differenze che ci sono, al giorno d’oggi, tra le persone e la loro concezione del lavoro.
Una figlia coreana sottolinea quanto il padre abbia sacrificato la propria vita al lavoro, negandola a sé stesso e ai propri cari.
A tal proposito il governo coreano, proprio per ridurre le ore di lavoro, ha deciso di istituire un timer in ogni computer, cosicché allo scadere di esso, lo schermo diventasse nero e i lavoratori fossero costretti a smettere di lavorare e tornare a casa.
Un’ereditiera ha invece dichiarato che, pur non lavorando, occupa sempre le sue giornate con qualcosa da fare, a differenza del marito che, invece, lavora tantissime ore ed entrambi sono contenti del loro stile di vita.
Ciò che mi ha colpito di più è stata la storia dell’autista di Amazon, la quale ha sottolineato quanto fosse continuamente controllata durante la sua giornata di lavoro, attraverso una telecamera all’interno del furgone, che sorveglia i lavoratori in ogni movimento che fanno: non possono andare in bagno, bere o mangiare. Tant’è che raccontava di alcuni colleghi costretti a fare pipi in una bottiglia: condizioni di lavoro talmente assurde che è difficile credere che, ancora oggi, esistano tali realtà.
Il film più che sul lavoro, è incentrato sul fatto che, in futuro, la maggior parte dei lavoratori non servirà più, perché essi verranno sostituiti dai macchinari e dalla tecnologia.
Ciò permetterà all’uomo di avere più tempo libero a sua disposizione e ci si domanda se siamo effettivamente pronti a questo…
Uno dei temi che emerge da questo film è la differenza generazionale e la differente concezione del lavoro: per gli anziani lavorare corrispondeva alla necessità, invece per i giovani d’oggi non è così: essi cercano dei lavori, che permettano loro guadagnare di qualche soldo, mentre studiano.
La cosa che più mi ha colpito è stata la domanda finale “continueresti a lavorare se ci fosse un reddito universale di base?”
Nessuno degli intervistati ha risposto, c’è stato un silenzio imbarazzante accompagnato da sorrisi, che facevano sottintendere la risposta.
Tra i vari punti di vista che tratta l’autore io mi trovo d’accordo solo con metà. Non penso che si possa definire “vita” quando la tua unica priorità è il lavoro. Non siamo in questo mondo solo per lavorare ma anche per vivere, coltivare delle passioni, stare con le persone che amiamo… Purtroppo ad oggi anche vivere é considerato un lusso per pochi, perché molti di noi non posso permettersi una vita “dignitosa” (se così può essere definita) se non lavorano. Tra chi deve mantenere una famiglia, chi deve lavorare per potersi permettere gli studi, cure mediche e alla fine di tempo e denaro in più ne rimane ben poco se non niente. Mi sono trovata molto in disaccordo quando durante la proiezione del documentario hanno parlato dei giovani di oggi senza lavoro che pensano solo a divertirsi, perché non è assolutamente così o perlomeno é stato sbagliato generalizzare. Perché molti di noi lavorano per potersi permettere gli studi (tra cui libri, mezzi di trasporto), alcuni si sono trasferiti per un futuro migliore e quindi vivono da soli e devono occuparsi anche delle spese di una casa. Anche chi non studia si dà da fare cercando lavori ovunque. Quello che penalizza sono i salari che riceviamo, e con il caro di vita che c’è oggi, uno come fa a fare una famiglia se il suo stipendio é di 800€ al mese(se non peggio). E no, non tutti hanno la fortuna di vivere una vita serena e fare sempre festa perché tanto al mio futuro ci hanno pensato mamma e papà e quindi anche se non faccio niente un lavoro per me loro ce l’hanno. Mi é sembrato che sia stato proprio questo il messaggio che é stato detto su noi giovani, ma la realtà é che solo 3 su 10 forse hanno la vita semplificata. Per quanto riguarda i lavoratori del Kuwait che si ritrovano a essere pagati per fare finta di lavorare, può sembrare divertente e facile all’inizio, ma poi a scopo tutto questo? Lavorare significa anche avere un posto nel mondo, e per quanto possiamo pensare di non stare svolgendo chissà che mansione, dobbiamo sempre pensare che nel nostro piccolo aiutiamo il mondo ad andare avanti. Servirebbe però che i governi di tutti i paesi si interessino al nostro futuro perché da soli non possiamo cambiare le cose, ma uniti magari si