L’uomo e la montagna

Accogliente o insidiosa, selvaggia o suggestiva, protetta o inquinata: la montagna ha sempre destato il fascino di esploratori, impavidi avventurieri o individui alla ricerca di quel silenzio sconosciuto alla grande città. Questo rapporto multiforme tra umanità ed ecosistema montano è stato oggetto di riflessione da parte del cinema, spesso declinato o entro la narrazione della montagna come limite da superare, o entro il racconto di formazione che si sviluppa entro questo ambiente naturale. In altri casi ancora, la montagna – specialmente durante la stagione invernale – è un ambiente di passaggio attraverso il quale i personaggi camminano a stento, forse già provati da un lungo viaggio nel quale hanno attraversato altri luoghi.
Fra le prime rappresentazioni cinematografiche della montagna occorre ritornare nella Germania degli Anni Venti, periodo in cui si consolida il genere del Bergfilm – letteralmente il “film di montagna” – volto a immortalare in immagini il mito della conquista delle vette più alte attraverso uno stile che mescola l’avventura e il melodramma. Il suo rappresentante più celebre resta Arnold Fanch, alpinista e appassionato degli sport d’alta quota, che con l’aiuto di cameraman abilissimi quali Hans Schneeberger o Sepp Allgeier ha realizzato riprese all’aperto anche durante condizioni meteorologiche avverse e su terreni impervi, portando all’attenzione del grande pubblico il fascino dello sci e la bellezza della montagna europea.

In contemporanea a questa rappresentazione austera del paesaggio montano, dagli Stati Uniti d’America Charles Chaplin racconta tale paesaggio attraverso il proprio linguaggio. La sua rappresentazione cinematografica della montagna nel film La febbre dell’oro (1925) ha acquisito, nel corso dei decenni, uno status iconico nel mondo del cinema: il travaglio degli impavidi cercatori d’oro sulle montagne dell’Alaska viene narrato attraverso il punto di vista del Vagabondo, anch’egli alla ricerca delle agognate pepite e del riscatto sociale. Nel momento in cui una tormenta gli impedisce di proseguire il suo cammino, il Vagabondo è costretto a trovare riparo in un rifugio: le avversità della montagna, con il suo corredo di venti freddi e di neve altissima, che comportano il razionamento dei viveri, sono svuotati della loro carica drammatica e sortiscono un effetto comico.
Sopravvivere fra le alte cime
L’ostilità della montagna ha sempre attirato numerosi registi e sceneggiatori, affascinati dalle possibilità offerte da storie narrate tra le difficoltà dei ghiacci, delle temperature estreme, delle distese infinite di neve fresca. Questa fascinazione meglio si comprende quando la finzione incontra la realtà: tra gli innumerevoli esempi, il più noto resta il disastro aereo delle Ande che ha coinvolto la caduta di un velivolo di linea il 13 ottobre 1972, nonché la successione di eventi drammatici terminati con il salvataggio dei sopravvissuti entro la vigilia di Natale dello stesso anno. Oltre alla prima trasposizione realizzata pochi anni dopo il tragico evento – I sopravvissuti delle Ande (René Cardona, 1976) – l’adattamento più celebre resta Alive – Sopravvissuti (Frank Marshall, 1993), film che non risparmia la rappresentazione sia degli elementi più crudi della tragedia, sia della montagna stessa e della sua coltre di gelo e neve perenne. La risonanza dell’evento, unitamente ai dettagli più cruenti che hanno permeato la memoria collettiva – come gli episodi di cannibalismo – si è protratta fino alla contemporaneità, con La società della neve (Juan Antonio Bayona, 2023), lungometraggio targato Netflix scelto come film di chiusura dell’80a edizione del Festival di Venezia. Anche Everest (Baltasar Kormákur, 2015), scelto come film d’apertura alla 72a edizione della rassegna veneziana, è un lungometraggio che ricostruisce con minuzia una disastrosa spedizione sul Tetto del Mondo avventura nel 1996 e raccontata in diversi saggi che tentano di ricostruire l’accaduto. Una vicenda che ha avuto dei risvolti più tragici rispetto a quella narrata da Ascensione (Ludovic Bernard, 2017), lungometraggio che narra, invece, l’impresa di Nadir Dendoune, alpinista principiante che nel 2008 ha inaspettatamente raggiunto la vetta dell’Everest.

Il topos della sopravvivenza fra la neve delle cime più impervie è ricorrente in molti film ambientati nelle catene montuose di diversi continenti. Nel film Il domani tra di noi (Hany Abu-Assad, 2017), per esempio, vengono ripresi gli stessi stilemi dei tre lungometraggi ispirati al disastro aereo del 1972. A causa di un ictus il pilota alla guida dell’aeroplano a elica su cui viaggiano Ben e Alex non riesce più a controllare il velivolo, che si schianta a terra. Sopravvissuti all’impatto, i due protagonisti dovranno trovare una soluzione tra le montagne innevate dello stato del Colorado. Come Il domani tra di noi, anche Revenant – Redivivo (Alejandro González Iñárritu, 2015) racconta una storia di sopravvivenza. Dopo essere stato attaccato da un’orsa, Hugh Glass, abbandonato dai compagni di esplorazione, deve sopravvivere fra i ghiacci del North Dakota fronteggiare eventi meteorologici estremi. Oltre a essere un’indagine sul tema della vendetta personale, il film di Iñárritu è costellato di immagini che rappresentano con crudo realismo la maestosità e la pericolosità delle terre selvagge situate tra il Canada e l’Argentina, in particolare la Columbia Britannica, le Montagne Rocciose Canadesi e la Terra del Fuoco argentina, luoghi dove sono state effettuate le riprese.
Oltre i propri limiti
Se la montagna è un ambiente ostile a chi vi si ritrova casualmente, e tenta di sopravvivere alle difficoltà della stagione più fredda, essa è anche un banco di prova per impavidi avventurieri, le cui imprese sono state immortalate dalla Settima Arte. Molti documentari, in particolare, narrano imprese di alpinisti, scalatori o free climbers che hanno superato i propri limiti, stabilendo record inediti. Free Solo – Sfida estrema (Jimmy Chin, Elizabeth Chai Vasarhelyi, 2018) ripercorre la storica scalata dell’arrampicatore statunitense Alex Honnold sulla parete di El Capitan, nel Parco Nazionale di Yosemite, avventura nel giungo del 2017. Blood on the Crack (Heather Mosher, 2019) documenta le scalate più ardue di Kevin Jorgeson e Jacob Cook sulla catena canadese dei Bugaboos, e in particolare l’ascesa del Tom Egan Memorial Route, scalata nota per essere fra le più strazianti in assoluto. Anche un film come K2 – L’ultima sfida (Franc Roddam, 1991) mette in scena, con mezzi altamente spettacolari, il superamento dei limiti umani attraverso la storia di Taylor e Harold, due alpinisti che si cimentano nell’ardua scalata del K2, il picco più inaccessibile al mondo, incarnando quell’ancestrale scontro tra esseri umani e natura incontaminata.

Tuttavia durante queste sfide gli esseri umani non hanno sempre la meglio. Nell’ambito del cinema di finzione tra gli esempi più noti si trova 127 ore (Danny Boyle, 2010), film che ricostruisce la vera impresa di Aron Ralston, alpinista statunitense che nell’aprile del 2003 rimane intrappolato in un canyon dello Utah e, dopo 127 ore, è costretto ad amputarsi un braccio per poter sopravvivere. Nonostante l’ambientazione del film di Boyle non coincida con l’immaginario montano in senso stretto (o in senso europeo), il lungometraggio elabora una riflessione sulla resilienza degli esseri umani in ambienti sconosciuti che non lasciano spazio a errori o distrazioni. Lo stesso tema viene affrontato da Cliffhanger (Renny Harlin, 1993), thriller con protagonista Sylvester Stallone nei panni di uno scalatore soprannominato Cliffhanger, il quale, a causa di un incidente, è ritenuto responsabile della morte della giovane Sarah durante un’escursione ad alta quota sulle Montagne Rocciose americane.
La montagna per riscoprire sé stessi (e gli altri)
Ma la montagna non è solo luogo di imprese mozzafiato. Molti film ambientati tra vette altissime e catene montuose infinite mostrano come la montagna possa essere l’ambiente ideale ove l’essere umano indaga la propria natura, riflette sui propri dilemmi interiori e riscopre sé stesso. Il recente film Le otto montagne (Felix Van Groeningen, Charlotte Vandermeersch, 2022), basato sull’omonimo romanzo del 2017 di Paolo Cognetti, ripercorre la trentennale amicizia tra Pietro, un ragazzo di città, e Bruno, un ragazzo di montagna: la loro amicizia, nata durante l’estate del 1984 nella Val d’Ayas, ove Bruno è nato e cresciuto, si allenta e si consolida nel corso del tempo, mentre i due ragazzi, durante l’inverno, crescono e fanno esperienze totalmente differenti. È la morte del padre di Pietro a consentire ai ragazzi di riavvicinarsi: nelle ultime volontà dell’uomo, infatti, vi è la ricostruzione di un vecchio rifugio montano, nella valle di Bruno, da parte di entrambi i protagonisti; ed è proprio questo atto di ri-costruzione a consentire ai due amici di ri-scoprirsi a vicenda. La montagna, in questo senso, non è un mero fondale alle vicende dei protagonisti, bensì un personaggio a tutti gli effetti, dotato di ritmi non umani, di leggi che possono essere comprese o rigettate. Se Bruno, vissuto da sempre nella sua valle, non oserebbe mai lasciarsi alle spalle il suo passato e i suoi luoghi, Pietro è alla ricerca di “altre montagne”, non da scalare come un impavido alpinista, bensì da abitare: la montagna allora non coincide più con l’idea del limite da superare, ma si fa personaggio non umano in rapporto diretto con i personaggi umani.

La stessa riflessione sull’agentività dell’ambiente montano viene operata anche dal regista Ang Lee, che nel 2005 realizza I segreti di Brokeback Mountain, lungometraggio vincitore di tre premi Oscar con protagonisti Heath Ledger e Jake Gyllenhaal che narra la drammatica passione amorosa tra due cowboy nelle zone montuose del Wyoming. La montagna qui funge sia da teatro per le vicende che coinvolgono i due protagonisti, sia da agente che provoca l’esplosione del sentimento fra Ennis e Jack, le cui convinzioni circa la loro sessualità si infrangono nell’isolamento e nel silenzio di Brokeback Mountain.
Il disfacimento di principi e credenze è il cuore anche di Forza Maggiore (Ruben Östlund, 2014), film ambientato in un resort di lusso nelle Alpi francesi. A seguito di un pranzo all’aperto, una facoltosa famiglia svedese composta da Tomas, Ebba e dai figli Vera e Harry assiste a una valanga controllata che, tuttavia, si avvicina pericolosamente alla terrazza dell’hotel. In preda al timore di un’imminente tragedia, Tomas fugge in preda al panico, abbandonando la propria famiglia. Quando la valanga si ferma poco prima del resort, lasciando gli ospiti incolumi, Ebba rimane sconvolta dalla reazione del marito, il quale ha preferito mettere in salvo la propria vita senza curarsi affatto delle sorti della famiglia.

Ma la montagna resta un importante promotore per la riscoperta della propria intimità in lungometraggi che seguono i percorsi interiori di protagonisti solitari. Into the Wild – Nelle terre selvagge (Sean Penn, 2007), film che ripercorre il viaggio di Christopher “Alexander Supertramp” McCandless lungo gli Stati Uniti d’America, culmina con l’approdo in Alaska del protagonista, il quale deve sopravvivere da solo al clima rigido della regione. Ed è proprio qui che Chris comprenderà il vero senso della vita e lo scopo ultimo di ogni essere umano, riassumibile nella celeberrima frase “Happiness only real when shared” (“La felicità è autentica solo se condivisa”), ravvedendosi sulla sua estenuante ricerca della solitudine dopo aver abbandonato la sua esistenza borghese e la sua brillante carriera all’orizzonte. Lo stesso percorso interiore viene affrontato anche dalla protagonista di Wild (Jean-Marc Vallée, 2014): a seguito della traumatica fine del suo matrimonio con Paul, Cheryl Strayed intraprende un viaggio in solitaria sui monti occidentali degli Stati Uniti d’America alla ricerca di sé stessa, confrontandosi con la bellezza e i pericoli della “wilderness”.
La riscoperta della propria interiorità scaturita dal confronto tra la limitatezza dell’essere umano e la grandezza silente della montagna non esclude necessariamente la solitudine. Nel film Sette Anni in Tibet (Jean-Jacques Annuad, 1997), il giovane alpinista ed esploratore austriaco Heinrich Harrer, giunto nel paese più isolato e alto al Mondo, non solo si confronta con un ambiente tanto diverso dall’Europa, ma entra in contatto con la comunità tibetana e con i monaci, rapportandosi con credenze religiose che un tempo credeva altamente remote. In questo senso, il film esprime la necessità di non concepire la montagna come ambiente selvaggio e chiuso alla presenza dell’essere umano: così come espresso nel già citato Le otto montagne, tale ambiente è caratterizzato da un proprio ecosistema che occorre essere rispettato, in armonia con tutte le forme di vita che in esso vivono, muoiono e si rigenerano.
A cura di Shannon Magri