Sguardi sull’infanzia
La storia del cinema è letteralmente costellata di bambini, sin dalle sue origini. In uno dei primi film dei fratelli Lumière, solitamente annoverato fra quelli che sanciscono la nascita ufficiale del medium in quel lontano 1895 (Le repas du bébé) è proprio la colazione di un bimbo a venire ripresa. Scelta particolare, da un certo punto di vista, che testimonia di come l’infanzia fosse vista, ancora all’epoca, come un soggetto di per sé interessante, qualcosa che nella sua estrema e quotidiana semplicità era in grado di mettere alla prova le potenzialità di questo nuovo dispositivo di riproduzione animata della vita. D’altronde già prima delle proiezioni Lumière erano i bambini i primi a meravigliarsi di fronte ai cosiddetti giocattoli ottici, quegli incunaboli dell’esperienza cinematografica la cui utilità è, in ambito educativo, ancora oggi ineguagliabile per favorire una comprensione di base del funzionamento dell’animazione.
Sin da questo momento aurorale, insomma, il cinema non ha mai smesso di rivolgere il proprio sguardo alla stagione dell’infanzia, che ha scrutato con una varietà di atteggiamenti diversi in base al contesto storico e industriale di riferimento, variando sempre il punto di vista. Il bambino finisce così col diventare un vero e proprio oggetto metaforico, utile ad esprimere prospettive sul mondo e punti di vista (a volta accomodanti, altre volte critici), sul presente e sul futuro. Gli esempi sono ovviamente tantissimi, ma basti pensare al coraggio di Dorothy, la piccola protagonista de Il mago di Oz (Victor Fleming, 1939) per rendersi conto di come le sue qualità fossero di fatto quelle che l’America dell’epoca si aspettava da tutti i suoi cittadini. Di segno completamente opposto è invece la visione del cinema italiano del secondo dopoguerra: in film-simbolo del Neorealismo come Sciuscià (Vittorio de Sica, 1946) o Bellissima (Luchino Visconti, 1951), il bambino diventa la metafora di una società allo sbando, stritolata fra gli orrori di una guerra che nessuna generazione dovrebbe mai trovarsi a testimoniare (tanto meno in età infantile) e il sogno di un innalzamento sociale che passa necessariamente fra le maglie del conformismo. Il grido forse più disperato arriva, in questo senso, da Germania anno zero (Roberto Rossellini, 1948), dove la figura di Edmund emblematizza tragicamente questa prospettiva devastante.
Il mago di Oz (Victor Fleming, 1939)
Ancora diversa è l’ottica offerta da François Truffaut, che con I quattrocento colpi (1959) ci porta a vedere con gli occhi del giovane Antoine Doinel la vita brulicante di una Parigi che si riscopre viva e vibrante. Il cinema, le giostre e le esperienze che il giovane compie al di fuori delle strutture del controllo (fra tutte, quella scolastica) sono vere e proprie attrazioni nel tessuto di una metropoli giovane e vitale, capace di assecondare i sogni di libertà di una generazione emergente. Il finale del film è da questo punto di vista assolutamente magistrale: attraverso un lungo piano-sequenza osserviamo la fuga di Antoine dal collegio dove è stato rinchiuso, una corsa trafelata oltre ogni recinzione, che termina sulla battigia. Il fermo immagine finale, con lo sguardo in camera, è una vera e propria richiesta di coinvolgimento del pubblico, chiamato a condividere qui il punto di vista anticonformista del protagonista.
Animare l’infanzia: Disney & co.
Biancaneve e i sette nani (David Hand, 1937)
A fianco dell’attenzione riservata ai bambini dal cinema narrativo, è soprattutto con l’animazione che una certa idea (potremmo quasi dire ideologia?) dell’infanzia ha con il tempo preso corpo, sia perché i bambini sono di solito immaginati come il pubblico d’elezione di queste produzioni, sia perché sono state in grado di esercitare su intere generazioni di bambini una sorta di funzione modellizzante, imponendo un repertorio condiviso di immagini, temi e immaginari. È certamente alle produzioni di Walt Disney e dei suoi epigoni che conviene rivolgersi in prima battuta, perché la loro capacità di tradurre visivamente strutture e funzioni della fiaba in animazione ha senza dubbio avuto un impatto importante in questo senso. Sin da Biancaneve e i sette nani (David Hand, 1937) la struttura canonica del film Disney si va definendo: una narrazione semplice e lineare, con personaggi ben definiti in termine di caratterizzazione e di posizionamento sull’asse bene/male e un’attenzione particolare all’elemento musicale. La capacità di rivolgersi a classici della narrativa come succede con Il libro della giungla (Wolfgang Reitherman, 1966) o del repertorio fiabesco, come avviene in Cenerentola (Clyde Geronimi, Wilfred Jackson, Hamilton Luske, 1950) è la dimostrazione del desiderio di aggiornare e nobilitare il repertorio della narrativa per l’infanzia all’interno di un nuovo mezzo espressivo. I bambini sono spesso protagonisti diretti di queste vicende, che diventano veri e propri viaggi di formazione attraverso cui i protagonisti crescono, superando sfide e ostacoli sempre più complessi, svolgendo un programma narrativo in cui non è difficile, per gli spettatori, rispecchiarsi. Mantenendo fede a questi principi, a partire dalla fine degli anni Ottanta, i film Disney faranno anche lo sforzo di aggiornare la propria sensibilità al contemporaneo, con vicende che – pur non tradendo lo spirito dell’azienda – sapranno sollevare interrogativi e questioni più attuali. È il caso di film come Aladdin (John Musker, Ron Clements, 1992), Il gobbo di Notre Dame (Gary Trousdale, Kirk Wise, 1996) o Mulan (Barry Cook, Tony Bancroft, 1998), decisamente più moderni sia nel ritmo che nello sviluppo della narrazione.
Toy Story – Il mondo dei giocattoli (John Lasseter, 1995)
A partire dal 1995 possiamo identificare un’altra azienda destinata a diventare un colosso dell’animazione contemporanea e – non a caso – ad incrociare strettamente con Disney il proprio destino creativo e commerciale. La Pixar Animation Studios debutta proprio in quell’anno con Toy Story – Il mondo dei giocattoli (John Lasseter), primo film realizzato completamente in CGI che riporta – nel contesto digitale – l’attenzione dei giovani spettatori sull’elemento magico che da sempre caratterizza l’animazione del visivo. Il film è profondamente metariflessivo, perché dedicato completamente all’esplorazione di un mondo di oggetti che dovrebbero essere inanimati eppure prendono vita appena al di fuori del campo visivo dei piccoli proprietari. Non c’è studio che meglio della Pixar abbia saputo sfruttare questa capacità plastico-magica dell’animazione digitale, del tutto evidente in opere come Ratatouille (Brad Bird, 2007), Coco (Lee Unkrich, 2017) e Luca (Enrico Casarosa, 2021). Non c’è film Pixar che sintetizzi questi temi meglio di Inside Out (Peter Docter, Ronnie del Carmen, 2015), uno dei più celebri e ambiziosi mai realizzati dallo studio. Il tentativo di esplorare, visualizzando le emozioni umane in forma antropomorfa, lo spazio dell’interiorità è una vera e propria sfida al medium, che raggiunge qui uno dei suoi punti più sviluppati e maturi.
Shrek (Andrew Adamson, Vicky Jenson, 2001)
A fianco di questi veri e propri imperi della medialità contemporanea vanno senza dubbio menzionati altri studi importanti che, come Dreamworks, si sono rivelati capaci di ritagliarsi uno spazio di autonomia importante nel mercato. Il titolo più interessante dell’azienda è probabilmente Shrek (Andrew Adamson, Vicky Jenson, 2001), che rovescia il paradigma delle fiabe disneyane e presenta allo spettatore un antieroe orchesco che, accompagnato da un gruppo di personaggi strampalati, riattraversa le fasi canoniche del viaggio dell’eroe in un registro che è di intelligente parodia. Anche al di fuori dei grandi circuiti dell’intrattenimento occidentale è possibile individuare alcuni autori o titoli interessanti, come attesta il caso dell’italiano Enzo d’Alò. Recuperando la tradizione del disegno e dell’animazione d’autore, film come La gabbianella e il gatto (1998) e Momo alla conquista del tempo (2001) si distinguono per uno stile grafico immediatamente riconoscibile e un intimismo del racconto che sembra precorrere, di non pochi anni, la sensibilità più recentemente raggiunta dalle grandi corporations. Altri casi interessante sono quelli di opere come Kirikù e la strega Karabà (Michel Ocelot, 1999) o La mia vita da zucchina (Claude Barras, 2016) che, seppure in modo radicalmente diverso, si propongono di compiere incursioni inedite nel territorio dell’infanzia, vuoi per il retaggio geografico e culturale della vicenda o per la capacità di inserire personaggi infantili in racconti ‘adulti’.
Dall’altra parte dell’oceano
Il mio vicino Totoro (Hayao Miyazaki, 1988)
Nel contesto dell’animazione, un impatto culturale pari o in alcuni casi superiore a quello esercitato da Disney e dall’animazione americana è stato senza dubbio quello del Giappone, che attraverso una ricca produzione di manga e anime ha saputo plasmare nel tempo un intero immaginario legato all’infanzia. Non si tratta tanto dell’elaborazione di prodotti esclusivamente dedicati ai bambini (spesso l’animazione giapponese arrivata in Italia e qui proposta ai più piccoli era in realtà pensata per degli adolescenti), quanto più di un vero e proprio discorso sull’infanzia, che si intreccia strettamente alla storia culturale del paese. È forse questo uno dei tratti distintivi dell’animazione nipponica, che in opere come Tommy la stella dei Giants (1968-1971) o L’uomo tigre (1969-1971) si è rivelata in grado di ragionare in modo esplicito e assolutamente problematizzante sul dramma della generazione nata nel secondo dopoguerra, fra le ceneri di Hiroshima e Nagasaki. Su questo stesso tema rimangono esemplari anche i lungometraggi che affrontano più apertamente questo drammatico episodio, come Gen di Hiroshima (Mori Masaki, 1983) oppure Una tomba per le lucciole (Isao Takahata, 1988).
All’interno di questo orizzonte culturale, la figura di Hayao Miyazaki ha assunto nel tempo una statura titanica per la coerenza di un progetto autoriale che ha saputo interrogare da vicino i nodi scoperti della società giapponese, elaborando però a partire da qui un discorso assolutamente personale e attento a questioni di stringente attualità, una fra tutte quella ecologica. Non tutti i film di Miyazaki affrontano direttamente il tema dell’infanzia, ma non si può non notare come questo sia in effetti uno dei nodi ricorrenti della sua poetica, una delle questioni su cui l’autore non ha mai cessato di interrogarsi. In questo senso è già esemplare Il mio vicino Totoro (1988), dove la fuga dalla città di una piccola famiglia porta le due giovani figlie ad aprirsi al mondo del fantastico naturale, scoprendo nel fitto del bosco una vera e propria cosmologia di creature amichevoli, capaci di farle uscire dal trauma della malattia della madre per condurle in un percorso di crescita. Lo sviluppo del personaggio infantile è al centro anche di La città incantata (2001), dove la piccola protagonista, per salvare i genitori trasformati in maiali, è costretta ad affrontare i drammi della vita adulta in anticipo sui tempi, scoprendo però anche molto su sé stessa. È però soprattutto in quella peculiare rielaborazione de La Sirenetta e Pinocchio che è Ponyo sulla scogliera (2008) che Miyazaki porta a compimento il suo discorso sulla natura trasformativa del passaggio infanzia/adolescenza, attraverso la vicenda di una creatura marina che scopre di voler appartenere ad un altro mondo. Interpretando in modo originalissimo tanto la cultura nipponica quanto i riferimenti occidentali, Miyazaki da così forma ad un discorso stratificato e complesso, che riguarda non soltanto l’infanzia e il ruolo di figlio ma anche quello del genitore e del materno/paterno.
A cura di Giuseppe Previtali