Moda e società
Il mondo della moda è pressoché inscindibile dal mondo del cinema: ne è dimostrazione la febbricitante attesa verso i red carpet che precedono anteprime, premiazioni ed eventi che celebrano la Settima Arte. La sfilata di divi in abiti sontuosi è presto diventata una tradizione in simbiosi con la fabbrica di sogni hollywoodiana. Allo stesso tempo, sin dagli albori del cinema le star hanno saputo dettare le regole della moda anche sullo schermo: tuttavia, se nel cinema delle origini i costumi di scena provenivano, per fattura e stile, dai palchi teatrali, è nel corso degli anni Venti e Trenta che approda sul set la figura del costumista, ed è solo a partire dal 1949 che l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences inizia ad assegnare il Premio Oscar ai Migliori Costumi.
Col passare dei decenni, il rapporto tra cinema e moda è diventato sempre più simbiotico, espressione della consapevolezza circa l’importanza dei costumi e degli abiti ai fini della narrazione. Tale collaborazione si è espressa in modi diversi: da film narranti l’epopea artistica di stilisti eccentrici a costumisti che, attraverso le loro creazioni sartoriali, hanno influenzato direttamente l’Haute Couture europea; da biopic incentrati su figure di spicco della storia della moda fino ai ‘fashion film’, in cui il medium-cinema incontra il medium-moda.
Icone della moda e costumisti iconici
Con la nascita del divismo, attori e attrici hanno saputo coniugare la loro presenza scenica con stili presto divenuti iconici. Dai tailleur androgini di Marlene Dietrich al trench di Humphrey Bogart in Casablanca (Michael Curtiz, 1941), dal look jeans e maglietta bianca di James Dean al pigiama indossato da Clark Gable in Accadde una notte (Frank Capra, 1934): questi e molti altri casi storici sono l’esempio di come i divi hollywoodiani abbiano saputo creare delle vere e proprie icone di stile attraverso i loro look, influenzando pubblico e società. Tuttavia, molto è dovuto anche all’abilità di costumisti e costumiste che hanno ideato abiti e stili confacenti agli interpreti e in sintonia con i film: attraverso brillanti intuizioni, i designer hanno realizzato capi che hanno lasciato una significativa impronta non solo nella storia del cinema, ma anche nella moda.
Considerato il primo costumista ad essersi imposto sulla scena hollywoodiana, Adrian Adolph Greenberg ha realizzato, dagli anni Venti in poi, capi rimasti nella storia del cinema. L’iconico abito a quadretti bianchi e azzurri indossato da Judy Garland ne Il mago di Oz (Victor Fleming, 1939) è rimasto negli annali, così come le memorabili scarpette di rubino. Non solo: la collaborazione tra Adrian Greenberg e la diva Joan Crawford produsse, fra gli altri, la giacca con spalline imbottite che fece la moda femminile degli anni Quaranta.
La costumista Edith Head, invece, iniziò la sua carriera rispondendo a un annuncio pubblicitario della Paramount Pictures: vincitrice di otto Premi Oscar nella sua categoria, Head realizzò abiti celebri ed instaurò un rapporto stretto con molte attrici di spicco. Tra le sue creazioni più iconiche, figurano i costumi realizzati su misura per Gloria Swanson in Viale del tramonto (Billy Wilder, 1950), per Audrey Hepburn in Vacanze romane (William Wyler, 1953) e Sabrina (Billy Wilder, 1954), e per Grace Kelly in Caccia al ladro (Alfred Hitchcock, 1955): per quest’ultima, è rimasto negli annali della moda il celeberrimo ‘Abito di Parigi’, vestito bianco e nero indossato dall’attrice ne La finestra sul cortile (Alfred Hitchcock, 1954).
Dal panorama italiano, significativo è l’apporto del costumista Piero Gherardi: la sua opera risulta particolarmente rilevante in seguito alla prolifica collaborazione con Federico Fellini; suo è, infatti, l’iconico abito da sera nero indossato da Anita Ekberg nell’epocale La dolce vita (Federico Fellini, 1960). Sempre di Gherardi sono i vestiti moderni realizzati per 8 ½ (Federico Fellini, 1963) e la scelta di far indossare al protagonista Marcello Mastroianni abiti a doppio petto e gli iconici occhiali a cornice rettangolare.
Un altro caso che rimarca l’influenza del cinema sulla moda è la produzione sartoriale di Milena Canonero. Vincitrice di quattro Oscar nella sua categoria, la costumista torinese ha fatto la storia del cinema realizzando capi per i film di Francis Ford Coppola, Wes Anderson e Roman Polanski. Inoltre, la sua collaborazione con il regista Stanley Kubrick in Arancia meccanica (1971), Barry Lyndon (1975) e Shining (1980) è stata ampiamente recepita dalla moda: le sue creazioni per il cineasta newyorkese sono state rivisitate nell’ambito della campagna Exquisite autunno-inverno 2023 di Gucci, firmata dal direttore creativo Alessandro Michele; un omaggio che sottolinea, ancora una volta, il proficuo sodalizio fra moda e cinema.
Le incursioni degli stilisti nel cinema
La Haute Couture europea, d’altro canto, non è rimasta indifferente alla possibilità di collaborare direttamente con le produzioni cinematografiche. “No Dior, no Dietrich” è la celebre frase che la diva Marlene Dietrich avrebbe rivolto ad Alfred Hitchcock, quando il regista britannico le propose il ruolo di Charlotte Inwood nella pellicola Paura in palcoscenico (1950): le parole dell’attrice, la quale aveva assistito al primo défilé del couturier di Granville, sono espressione di quel legame inscindibile che è intercorso fra lei e Christian Dior, sia dentro che fuori lo schermo. Simile, in questo senso, è il sodalizio artistico fra Audrey Hepburn e Hubert de Givenchy instaurato a partire dal 1957. Uno degli esiti più celebri resta l’iconico guardaroba disegnato dallo stilista francese per il film Colazione da Tiffany (Blake Edwards, 1961): il tubino di raso nero che compare nella scena di apertura del film è considerato, ad oggi, uno dei capi più influenti della storia del cinema e della sartoria. Un altro abito di culto che ha rivoluzionato la storia della moda è senza dubbio ‘la petite robe noir’ disegnata da Yves Saint Laurent per il film Bella di giorno (Luis Buñuel, 1967), pellicola per la quale lo stilista ha curato l’intero guardaroba: l’abito nero con colletto e polsini in satin color avorio indossato da Catherine Deneuve ha lasciato una significativa impronta nel mondo del cinema e della moda, tanto da essere più volte riproposto nelle collezioni di brand della Haute Couture.
Dal panorama italiano, è quarantennale il legame tra Giorgio Armani e il cinema. Il suo gusto e il suo stile inconfondibile hanno contribuito a infondere quel valore narrativo e simbolico a capi indossati da attori e attrici. Celebre la sua prima incursione nel mondo della Settima Arte avvenuta nel thriller American Gigolò (Paul Schrader, 1980), film per il quale Armani disegnò gli abiti indossati dall’allora trentunenne Richard Gere. Suoi sono i bozzetti degli abiti indossati da una giovanissima Jennifer Connelly nell’horror Phenomena (Dario Argento, 1984), il guardaroba realizzato per The Untouchables (Brian De Palma, 1987) e per Christian Bale ne Il cavaliere oscuro (Christopher Nolan, 2008), nonché il completo da sera indossato da Brad Pitt in Bastardi senza gloria (Quentin Tarantino, 2009).
Il design dal gusto futurista ha caratterizzato, invece, la collaborazione tra lo stilista Jean Paul Gaultier e il cinema. Costumista anche per tournée e video musicali, Gaultier ha saputo interpretare i nuovi stimoli scaturiti dalle riflessioni della postmodernità attraverso la moda, come è visibile nei costumi realizzati per Kika (Pedro Almodovar, 1993), La città perduta (Jean-Pierre Jeunet, 1995) e Il quinto elemento (Luc Besson, 1997). Non solo Gaultier: contemporanea alla sperimentazione dal gusto futurista dello stilista francese è, ad esempio, l’armatura indossata da Sylvester Stallone nel film Dredd – La legge sono io (Danny Cannon, 1995), realizzata da Gianni Versace.
Dal postmoderno all’eleganza di una ricca famiglia milanese: la collaborazione fra il regista Luca Guadagnino e l’attuale direttore co-creativo di Prada, Raf Simons, è iniziata con il film Io sono l’amore (2009). Per il terzo lungometraggio del regista, Simons ha realizzato l’intero guardaroba di Tilda Swinton, interprete della matriarca Recchi, al tempo del suo ruolo come direttore creativo di Jil Sander; in seguito, Raf Simons ha collaborato nuovamente con Guadagnino per la realizzazione degli abiti di A bigger splash (2015), quando Simons era già passato alla casa di moda Dior.
A partire da queste collaborazioni – alcune, fra molte altre – è evidente come la collaborazione fra stilisti e produzioni cinematografiche non sia per niente sporadica: l’opera di stilisti e direttori creativi comporta non solo un arricchimento dal punto di vista visivo della pellicola, ma anche l’attribuzione di un evidente valore a costumi e abiti, i quali non rivestono, dunque, un ruolo secondario all’interno della narrazione.
Personalità eccentriche nel mondo della moda
La collaborazione fra moda e cinema non si esplicita esclusivamente dal punto di vista degli abiti: molti film, dagli anni Cinquanta in poi, hanno riflettuto sulla moda stessa e sulle pratiche coinvolte nei suoi meccanismi. Cenerentola a Parigi (Stanley Donen, 1957) è un musical, con protagonisti Audrey Hepburn – i cui abiti sono frutto della collaborazione tra i già citati Givenchy e Edith Stein – e Fred Astaire, il quale riflette sul reportage di moda e sulle riviste specializzate, e che ha contribuito a plasmare il mito di Parigi quale capitale della Haute Couture. Il magazine Quality è alla ricerca di un nuovo volto da lanciare nel mondo della moda: la scelta ricade sulla timida bibliotecaria Jo Stockton che, tuttavia, disprezza la vita mondana. Convinta a intraprendere un viaggio per Parigi insieme al fotografo Dick Avery – personaggio vagamente ispirato alla figura di Richard Avedon – la giovane modifica, progressivamente, il suo giudizio sul mondo della moda, rimanendone folgorata. In concorrenza con la Parigi sede della Haute Couture europea, c’è la ‘swinging London’ degli anni Sessanta, in cui si sviluppano le vicende del film d’essai Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966). Al posto del reporter interpretato da Fred Astaire, c’è il frenetico Thomas, scontroso fotografo di moda interpretato da David Hemmings. Pur evolvendosi in una raffinata riflessione sullo sguardo e l’immagine, il film di Antonioni concerne anche una precisa analisi del nuovo rapporto tra l’obbiettivo della macchina fotografica e il suo oggetto: iconica, in questo senso, è la sessione fotografica che coinvolge Thomas e la (vera) supermodella Veruschka, definibile come un ‘amplesso fotografico’ per le modalità con cui il fotografo realizza gli scatti, sovrastando fisicamente la top model.
Nonostante l’attrattività della ‘swinging London’, la capitale francese resta il luogo prediletto per narrazioni concernenti il mondo della moda. Basti pensare a Personal Shopper (Olivier Assayas, 2016), cui titolo fa riferimento alla professione esercitata da Maureen (interpretata da Kristen Stewart) per conto della top model Kyra Gellman. Oppure a Prêt-à-Porter (Robert Altman, 1994), film con protagonisti Sophia Loren e Marcello Mastroianni, i quali, si ritrovano, dopo molti anni, nella Parigi alla vigilia della settimana della moda. Gli ambienti delle sfilate sono i luoghi in cui convergono personaggi provenienti dal mondo dello spettacolo e della moda mondiale che, nel film, interpretano loro stessi: da Cher a Jean Paul Gaultier, da Christian Lacroix a Gianfranco Ferré, Prêt-à-Porter racconta un microcosmo di stilisti, modelli e giornalisti animati da una frenesia quasi irreale, criticandone dunque i meccanismi, le isterie e le ipocrisie. La critica verso il mondo della moda è anche al centro dal film The Neon Demon (Nicolas Winding Refn, 2016), lungometraggio che, declina tale riflessione verso il sistema della competizione fra modelle entro i canoni dell’horror movie: l’aspirante modella Jesse si trasferisce a Los Angeles per entrare nel circuito delle agenzie di moda, rimanendo fagocitata da un sistema che pone il narcisismo e l’autocelebrazione al di sopra di tutto.
Se nei film di Altman e Refn la critica verso il mondo della moda risulta aspra e tagliente, un taglio comico caratterizza due altrettanti lungometraggi riguardanti stereotipi ed eccentricità di tale sistema. Da un lato, la satira di Zoolander (Ben Stiller, 2001) mira alla destrutturazione della figura del modello, parodizzandone i comportamenti stravaganti e il modo di pensare: l’unico scopo del supermodello Derek Zoolander è essere “bello, bello in modo assurdo”, limitazione mentale che fa di lui un soggetto perfettamente manipolabile. Dall’altro lato, la commedia Il diavolo veste Prada (David Frankel, 2006) svela i giochi di potere e manipolazione all’interno di una rivista di moda: il percorso dell’inesperta Andy Sachs, da stagista ad assistente della tirannica Miranda Priestly, rivela i meccanismi malsani che regolano il castello di carte quale è la rivista di moda Runway. Il riscatto di Andy, che sceglie di non aderire alle regole contraddittorie del regno di Miranda, è simile, per certi versi, al riscatto di Myrtle Dunnage nel film The Dressmaker (Jocelyn Moorhouse, 2015): ripudiata dalla comunità per un omicidio non commesso, Myrtle abbandona l’entroterra australiano per recarsi in Europa, dove studia moda e diventa un’abile stilista e sarta. In un’atmosfera che cita volutamente il genere ‘spaghetti western’, la protagonista sfrutta le sue doti di designer per riaffermare sé stessa e la madre all’interno del piccolo contesto rurale che le aveva precedentemente ostracizzate.
Un’operazione diversa, sia per stile che per contenuti, è quella condotta dal regista Paul Thomas Anderson, il quale riflette sul mondo della sartoria e dell’alta moda attraverso il dramma amoroso che coinvolge lo stilista Reynolds Woodcock e la cameriera Alma nel film Il filo nascosto (2017). Ambientato nel contesto dell’industria della moda londinese anni Cinquanta, la pellicola di Anderson concerne non solo una riflessione circa le dinamiche segrete dell’arte, ma anche una ricerca estetica dell’immagine in armonia con la cura dedicata alla creazione di abiti e costumi da parte di Mark Bridges, premiato con l’Oscar per i Migliori costumi nel 2018. Il guardaroba non è più solo pura apparenza: l’inserimento di messaggi criptici nel tessuto dei vestiti da parte di Woodcock allude a una concezione della sartoria come arte a tutti gli effetti; e, come tutte le arti, essa cela significati e simboli inaccessibili, fili nascosti che restano indecifrabili.
Storie (vere) dal mondo della moda
Non pochi sono i biopic che raccontano il processo creativo di stilisti e designer della moda. Il più recente è Air – La storia del grande salto (Ben Affleck, 2023), film che pur discostandosi dai meccanismi regolatori della Haute Couture, racconta la creazione delle celebri calzature sportive Air Jordan, rese iconiche dalla collaborazione fra il marchio Nike e il cestista Michael Jordan; pur trattandosi di scarpe sportive, è evidente come la riflessione di Affleck coinvolga, necessariamente, le dinamiche conseguenti la diffusione delle Air Jordan che, dal mondo del basket, sono approdate a quello della moda.
Il processo creativo è il fulcro delle narrazioni concernenti figure incisive della Haute Couture. Ne sono un esempio i film Yves Saint Laurent (Jalil Lespert, 2014) – lungometraggio che ripercorre la vita dello stilista francese, a partire dalla morte di Christian Dior – e Coco Avant Chanel (Anne Fontaine, 2009) – racconto che ricostruisce la vita della celebre stilista, dalla povertà alla fondazione dell’omonima casa di alta moda. Differisce, invece, la linea adottata da Ridley Scott per House of Gucci (2021): nonostante il film non manchi di una ricostruzione di alcune fasi significative che hanno caratterizzato il declino e la rinascita del marchio, il lungometraggio è principalmente la narrazione dell’ascesa di Patrizia Reggiani all’interno della famiglia Gucci.
Fra i documentari incentrati su figure fondamentali per l’evoluzione della moda – da Dior & I (Frédéric Tcheng, 2015) a Valentino: L’ultimo imperatore (Matt Tyrnauer, 2008) – risulta interessante l’operazione di Luca Guadagnino che nel documentario Salvatore: Shoemaker of Dreams (2020) racconta, con materiali d’archivio e interviste ad artisti, la figura di Salvatore Ferragamo: la narrazione, che ripercorre il percorso creativo del designer, da Bonito fino a Hollywood, sortisce una consistente riflessione sul rapporto tra la moda made in Italy e le produzioni cinematografiche – dal muto fino agli anni Cinquanta – nonché la relazione fra star e moda.
Ancor più singolare il documentario La scomparsa di mia madre (Beniamino Barrese, 2020), presentato al Sundance Film Festival nel 2019. Prima modella italiana a comparire sulla copertina di Vogue America nel 1963, la top model Nicoletta Barzini è al centro di questo racconto intimo che narra il suo definitivo ritiro dalle scene. Il racconto, in questo senso, riflette sulla contrapposizione fra la bellezza, resa eterna dalla moda, e l’inevitabile invecchiamento, attraverso ricordi e riflessioni di Nicoletta. La scomparsa di mia madre narra il congedo di un’icona della moda attraverso il mezzo cinematografico, facendo sortire il lato assolutamente umano che si cela dietro lo sfavillante mondo del fashion.
a cura di Shannon Magri