Narrazione complessa
Alle origini del cinema, il racconto filmico è dotato di una linearità universalmente comprensibile: la fabula – ossia il susseguirsi cronologico degli eventi – coincide esattamente con l’intreccio – cioè l’ordine narrativo degli eventi. Un punto di svolta è stato segnato dall’introduzione del montaggio alternato e parallelo: se nel primo caso due eventi distinti sono destinati a convergere, nel secondo due o più azioni, che si svolgono parallelamente, non si ricongiungeranno. Tuttavia, la linearità temporale degli eventi non subisce alterazioni, e il racconto filmico proseguirà su questa strada per molti decenni: l’unica ‘eccezione’ è il flashback, ossia, la narrazione di eventi passati funzionale al racconto filmico del presente; in casi ancora più isolati, si parla di anticipazione di eventi futuri, o ‘flashforward’.
Con l’avvento del postmoderno, le cose cambiano: è finito il tempo delle ‘grandi narrazioni’, di una verità univoca e di nozioni universalmente condivise. E il cinema, dal canto suo, assorbe questi stimoli, reinterpretandoli attraverso il suo linguaggio: il risultato è lo stravolgimento delle convenzioni narrative della tradizione hollywoodiana. Le nuove narrazioni complesse sfidano lo spettatore a decifrare enigmi e studiare le componenti di una storia, scelta che richiede al pubblico uno sforzo mentale più o meno elevato. Il momento di svolta viene segnato, in questo senso, da Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994), film che ha rimodulato il rapporto tra intreccio e fabula e che ha fatto da apripista a una serie di film ispirati dalla lezione tarantiniana. Questo filone di lungometraggi viene comunemente definito ‘puzzle film’, termine cappello che include produzioni cinematografiche caratterizzate da una narrazione complessa, da thriller a neo-noir, da drammi domestici alla fantascienza.
Prima del Postmodernismo
Ripercorrendo la storia del cinema, si rileva come, in realtà, il concetto di puzzle film non sia un prodotto scaturito direttamente dal postmodernismo. Agli albori della Settima Arte, un chiaro esempio di narrazione a incastro è Il gabinetto del Dr. Caligari (Robert Wiene, 1920), simbolo del cinema espressionista tedesco e uno dei primissimi esempi di impiego del ‘colpo di scena’ che stravolge l’intero impianto narrativo. Il ‘plot twist’ si rivelerà essere un espediente narrativo ampiamento fruito nei puzzle film, dagli anni Novanta in poi: pur non necessariamente implicato nella composizione di narrazioni complesse, il momento di stravolgimento risulta spesso fondamentale per riavvolgere le fila di una storia che viene mostrata – spesso mediante l’uso del flashback – attraverso un nuovo punto di vista, palesando la falsità (o parzialità) di quanto visto fino a quel momento. Quarto potere (Orson Welles, 1941) è esemplificativo sia di una narrazione operante mediante flashback – una struttura ‘a scatole cinesi’ – sia di un impiego del plot twist finale che permette una riflessione a ritroso sulla vita di Charles Foster Kane. Anche un altro caposaldo della storia del cinema, 2001: odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968), viene narrato attraverso un gioco d’incastri e un colpo di scena che rivela il reale scopo della missione spaziale.
Con l’avanzare dei decenni, l’orizzonte del puzzle film pare ancora incerto: maggior enfasi viene posta sul plot twist, specialmente in lungometraggi afferenti al genere horror, come Rosemary’s Baby (Roman Polanski, 1968) o La notte dei morti viventi (George A. Romero, 1968), eredi della lezione hitchcockiana di Psycho (Alfred Hitchcock, 1960). Un esempio più aderente alla configurazione del puzzle film postmoderno è L’inquilino del terzo piano (Roman Polanski, 1976): pur ancora legato a una narrazione parzialmente tradizionale, il film di Polanski opera nel campo del thriller psicologico – terreno fertile per successive narrazioni complesse – e costruisce un puzzle psicologico dalla struttura ciclica, potenzialmente infinita. Lo stile narrativo a incastro verrà successivamente ripreso nell’horror Il seme della follia (John Carpenter, 1994): così come l’inquilino di Polanski, l’investigatore assicurativo John Trent si ritrova coinvolto in vicende al limite dell’inverosimile, che lo porteranno dalla camera di un ospedale psichiatrico a una sala cinematografica.
Un narratore poco (o per niente) attendibile
Con la formalizzazione del postmodernismo, il cinema inizia a interrogarsi non solo sulle possibilità offerte da una narrazione non lineare, ma anche sulle implicazioni derivate da una (nuova) realtà dalle molteplici verità. Molti registi – spesso esordienti, come Christopher Nolan o il già citato Tarantino – amplificano le loro riflessioni circa la veridicità di quanto vissuto, detto o pensato dai loro personaggi. Ne scaturiscono lungometraggi che, attraverso un’abile collaborazione fra sceneggiatura e montaggio, raccontano le peripezie di un narratore parzialmente (o totalmente) inattendibile. Il mito del protagonista quale fonte di verità assoluta sulle vicende, erede della tradizione del cinema classico hollywoodiano, è lontano: al suo posto, c’è un protagonista fragile e ambiguo dal quale apprendiamo i fatti salienti della storia. Lo spettatore, in questo senso, non esperisce che il suo punto di vista, pur ritrovandosi, in certi momenti fondamentali, a carpire la sua inattendibilità. Un esempio fra tutti è Memento (Christopher Nolan, 2000), film che ha saputo elaborare la prospettiva del protagonista attraverso un intricato lavoro sulla sceneggiatura e sul montaggio. Leonard Shelby è affetto da amnesia anterograda, disturbo che gli impedisce di acquisire nuove informazioni per più di due minuti: per sopperire alla sua condizione, l’uomo si è tatuato le informazioni più importanti sul suo corpo, scrive appunti essenziali su dei post-it e scatta istantanee di persone per identificarne il ruolo e il rapporto che intercorre fra loro. Per aumentare il senso di coinvolgimento verso la condizione di Leonard, Nolan sceglie di frammentare la narrazione in brevi episodi e montarli ‘al contrario’: in questa forma, lo spettatore si ritrova catapultato in frammenti che si riannodano su loro stessi, espediente volto a rendere lo stesso spettatore del tutto amnesico; tale escamotage risulta simile, da un punto di vista concettuale, al montaggio ‘a ritroso’ caratterizzante Irreversibile (Gaspar Noé, 1997).
La struttura a incastro risulta essere un valido espediente per rendere manifesto un disturbo psichico del protagonista, in principio non rivelato in favore di un successivo ‘plot twist’. In A Beautiful Mind (Ron Howard, 2001) il punto di vista è quello del matematico John Nash, di cui viene narrato il percorso accademico e, in particolare, la formalizzazione della teoria dei giochi: la schizofrenia di cui Nash è affetto, tuttavia, viene disvelata lentamente, nel corso del film, giacché nemmeno il protagonista è cosciente di esserne affetto; solo il comportamento eccentrico del matematico, palesato fin dalla sua prima comparsa in scena, funge da campanello d’allarme per lo spettatore. Nel lungometraggio di Howard, l’espediente per rendere invisibile la malattia mentale non risiede tanto nel montaggio quanto nella scelta di plasmare il mondo attraverso la psiche di Nash: lo stesso accade nel thriller psicologico Il cigno nero (Darren Aronofsky. 2010) – in cui la ballerina protagonista è affetta da schizofrenia e mania di perfezionismo – e in Fight Club (David Fincher, 1999) – il narratore ha sviluppato un disturbo dissociativo dell’identità.
Il meccanismo del senso di colpa nei puzzle film
L’indagine nei meandri della psiche umana è uno dei campi prediletti dai puzzle film. In particolare, le dinamiche relative al senso di colpa risultano oggetto di diverse riflessioni da parte del cinema hollywoodiano: le fasi di negazione e accettazione, vissute attraverso gli occhi del protagonista, sono conformi a una narrazione a incastro e a una riflessione a ritroso circa la fallace – o alterata – verità dei fatti.
L’uomo senza sonno (Brad Anderson, 2004) narra il percorso del protagonista dalla deresponsabilizzazione alla consapevolezza delle proprie azioni. L’intricato gioco psicologico, che ha come protagonista Christian Bale, riflette, così come in Fight Club e Il cigno nero, sullo sdoppiamento della personalità, qui declinata nella progressiva presa di coscienza del dolore che il protagonista ha causato. Lo stesso percorso – con esito negativo – viene intrapreso dall’agente federale Edward Daniels in Shutter Island (Martin Scorsese, 2010), thriller che raggiunge la massima tensione nel plot twist finale: tuttavia, a differenza di altri puzzle film, Shutter Island opera spargendo indizi circa la reale identità del protagonista e il suo ruolo all’interno del manicomio nel quale viene denunciata la scomparsa di una paziente: indizi che possono essere colti solo a seguito di una seconda visione.
Pur trattandosi di una riflessione di natura psicologica, il tema del senso di colpa risulta ampiamente impiegato in puzzle film afferenti al genere horror. Sia Il sesto senso (M. Night Shyamalan, 1999) che The Others (Alejandro Amenábar, 2001) scardinano i meccanismi tradizionali delle ‘storie di fantasmi’ attraverso racconti che, così come i precedenti film nominati, vengono trasmessi dal punto di vista del/della protagonista che cela un senso di colpa inespresso: nel lungometraggio di Shyamalan, lo psicologo infantile tenta di aiutare il piccolo Cole che asserisce di ‘vedere le persone morte’, tentando di riaffermarsi professionalmente; la Grace Stewart di The Others cerca di proteggere i figli da misteriose presenze che si aggirano nella casa, rimarcando il suo valore come ‘buona madre’.
Parzialmente influenzato dal genere horror è anche Mulholland Drive (David Lynch, 2001), opera psicologico-trascendentale che verte sul senso di colpa della protagonista Betty: la sua peculiarità risiede non solo nella complessità del suo intreccio, perennemente sul confine tra realtà e finzione, e nella presenza di ‘falsi indizi’, ma anche nell’assenza di un conclamato ‘colpo di scena’. A differenza di altri puzzle film, infatti, il lungometraggio di Lynch è privo di qualsiasi spiegazione esplicita dal taglio didascalico: ogni riflessione circa la natura del senso di colpa che affligge Betty è lasciata allo spettatore.
Unire le tessere del puzzle insieme ai protagonisti
Non è detto che la partita dei puzzle film debba essere giocata solo dagli spettatori: in alcuni casi, specialmente nei lungometraggi mystery o thriller, le dita che cercano di sbrogliare la matassa sono quelle del protagonista che si ritrova al centro della narrazione malgré lui. Tale schema è riscontrabile ampiamente nell’opera del sopracitato Lynch, da Strade perdute (1997) a Inland Empire (2006), nonché nella serie I segreti di Twin Peaks (1990-91) e nel sequel Twin Peaks (2017).
Dal fronte del cinema coreano postmoderno, Oldboy (Park Chan-wook, 2003) è uno degli esponenti della nuova narrazione complessa. Oh Dae-su viene rapito e costretto in uno stato di isolamento per quindici anni; una volta libero, l’uomo cerca vendetta. In contrapposizione con gialli e polizieschi, Oldboy risulta essere un puzzle film non solo per la presenza del colpo di scena tipico del genere, ma anche in virtù di un protagonista amnesico (ma non patologico) e di un antagonista che conosce la verità assoluta: le ricerche dell’eroe Dae-su, di fatto, portano a conclusioni del tutto errate. Un’indagine più tradizionale, ma comunque intricata secondo le regole del puzzle film, caratterizza anche I soliti sospetti (Bryan Singer, 1995) – in cui spiccano un sapiente intreccio delle vicende unito all’imprevedibilità degli eventi narrati – e il thriller poliziesco Se7en (David Fincher, 1999).
La struttura complessa dei puzzle film consente non solo di agire sulla linearità delle vicende, ma anche di modificarne il continuum spaziotemporale. L’oggetto di tale sperimentazione è ancora una volta un eroe o un’eroina suo malgrado. Esponente del cinema tedesco post-muro, Lola corre (Tom Tykwer, 1998) è esemplificativo di una vera e propria esplosione della narrazione postmoderna, unitamente al già citato Pulp Fiction. Inframezzato da contenuti audiovisivi diversi, il film di Tykwer racconta la folle corsa di Lola verso il fidanzato, interrotta da veri e propri game over in cui la ragazza muore: come un videogioco, infatti, subito dopo la morte la narrazione subisce un rewind, si riavvolge su sé stessa e riprende il racconto in un momento antecedente il game over. È ciò che accade anche nel thriller Source Code (Duncan Jones, 2010): il capitano Stevens è costretto a vivere in continuazione gli ultimi otto minuti della sua vita grazie a un dispositivo sperimentale – il “codice sorgente” – e la sua missione è scoprire, a bordo di un treno, l’ubicazione della bomba che ha causato il disastro, e l’identità dell’attentatore responsabile. Una maggior complessità nell’alterazione del continuum spaziotemporale si riscontra in Donnie Darko (Richard Kelly, 2001), in cui il tema della morte (sventata solo in apparenza) si coniuga con la riflessione sui wormhole, come farà, più tardi, il fantascientifico Interstellar (Christopher Nolan, 2014), anch’esso ascrivibile nella categoria di puzzle film.
Relazioni complicate come un puzzle
La struttura complessa di matrice postmoderna si rileva in narrazioni pregne di azione e colpi di scena. Tuttavia, è interessante evidenziare la presenza di puzzle film che hanno come oggetto della narrazione le relazioni sentimentali: ciò risulta sintomatico di una crisi del modello hollywoodiano di love story, scalzato, in epoca contemporanea, da storie che raccontano la complessità dei rapporti interpersonali.
Innovatore e abile sceneggiatore di puzzle film – da Essere John Malkovich (Spike Jonze, 1999) a Il ladro di orchidee (Spike Jonze, 2002) – Charlie Kaufman ha saputo imbastire, a partire da riflessioni di stampo psicologico, intrecci difficili da disbrogliare, interiorità complesse e storie d’amore in crisi. In Se mi lasci ti cancello (Michael Gondry, 2004) – la cui sceneggiatura è firmata da Kaufman – sogno e realtà si mescolano nella ricostruzione della storia d’amore tra Joel e Clementine, dal naufragio dei sentimenti reciproci al tentativo di riappacificamento, ai quali si aggiunge un sofisticato background dal gusto distopico – il software della Lacuna Inc. in grado di cancellare ricordi specifici nella mente di una persona. Kaufman, in questo senso, è rappresentante di un cinema che esplicita la fragilità esistenziale e percettiva sia del mezzo cinematografico che delle soggettività al centro della narrazione – come accade nell’intricato Synecdoche, New York (Charlie Kaufman, 2008). Questa instabilità che sortisce una frammentazione dei punti di vista e la relativizzazione della verità, viene esemplificata soprattutto in Sto pensando di finirla qui (Charlie Kaufman, 2020): forse il più puzzle film più complesso dell’autore newyorkese, il film narra il tentativo di porre fine a un rapporto di coppia, unitamente a speranze e timori di un’intera generazione. Il film di Kaufman riesce non solo a ribaltare i canoni tipici della fine di una storia d’amore, ma anche a fruire della manipolazione spaziotemporale e del cambiamento di prospettiva per esplicitare temi esistenziali, come la paura della solitudine in età anziana, l’incomunicabilità fra partner, il disagio nell’ambiente familiare.
In questo senso, la lezione contemporanea di Kaufman esplicita ancora una volta il carattere vincente di una narrazione complessa quale specchio della relatività del mondo, delle preoccupazioni universalmente condivise, dell’assenza di una verità assoluta. I puzzle film permettono di esplorare soggettività traviate e di percorrere sentieri inesplorati della mente, esplicitando con forza l’assoluta necessità – e volontà – di riflettere su cosa significa essere umani.
a cura di Shannon Magri