Violenza di genere

Il tema della violenza di genere è oggi uno dei più rilevanti, considerata la sua drammatica frequenza, della nostra infosfera. La proliferazione di narrazioni in merito che ha fatto seguito all’emersione del movimento #Metoo ha interrogato da vicino anche i meccanismi produttivi e rappresentativi del cinema, che soprattutto negli ultimi anni non ha mancato di sperimentare sulle strategie di messa in scena e di racconto in questo ambito. Non si tratta solo di una questione estetica e stilistica, perché la delicatezza della materia richiede da parte di autrici e autori un posizionamento che deve essere prima di tutto etico: quali sono le strategie attraverso cui è possibile raccontare un atto di violenza mostrandone la drammaticità senza indulgenze e riuscendo al contempo a non spettacolarizzarlo? Quale autorità è giusto e necessario concedere alle testimonianze delle vittime? Come è possibile problematizzare il ruolo del contesto e delle narrazioni culturali che legittimano le molteplici forme della violenza di genere?

Violenza e vendetta

I prodromi di questo interesse cinematografico per le forme di violenza di genere possono essere individuati già in Giglio infranto (David W. Griffith, 1919), dove le percosse subite dalla protagonista per mano del padre sono la causa della sua morte. Più esplicitamente sessuale è la forma di violenza subita da Marion Crane in Psycho (Alfred Hitchcock, 1960), che sulle dinamiche di genere (e sulla loro inversione) ha costruito la propria genialità. Il voyeurismo di Norman (che il remake di Gus Van Sant connota come più esplicitamente onanistico) è solo la prima forma di violenza che il corpo della protagonista subisce per mano di una psiche scissa e duale. Hitchcock era ancora vincolato ai dettami del codice di autocensura e non è quindi mai del tutto esplicito nel mostrare la natura degli atti che rappresenta, ma è proprio questo limite a spingerlo a lavorare sulle forme della rappresentazione, in un continuo rincorrersi di forma e contenuto che fa di Psycho un riferimento insuperato ancora oggi.

Psycho (Alfred Hitchcock, 1960)

La liberazione sessuale e la mutazione dei costumi nel secondo dopoguerra hanno messo in crisi il paradigma hollywoodiano classico e favorito un’erosione delle frontiere del mostrabile che ha condotto – specialmente il cinema di genere – a farsi progressivamente più esplicito nella rappresentazione di scene sessuali e/o violente. Un caso limite in questo senso è offerto dal cosiddetto rape and revenge, filone di exploitation che mette al centro della sua struttura narrativa proprio un episodio di violenza, subito da una giovane protagonista per mano di un gruppo di uomini. Questo evento traumatico chiude la prima parte del film (rape), mentre la seconda vede la protagonista (o persone a lei vicine) mettere in atto un piano di vendetta (revenge) ai danni degli aggressori. Si tratta, come si intuisce, di un sottogenere piuttosto problematico, che corre sempre il rischio di cadere nel già citato rischio della spettacolarizzazione. L’uscita di film come L’ultima casa a sinistra (Wes Craven, 1972) o I Spit on Your Grave (Meir Zachi, 1978) hanno generato moltissime polemiche, perché si riteneva che l’esposizione a questo genere di immagini potesse favorire l’adozione di comportamenti violenti da parte degli spettatori. Rivisti oggi, questi film colpiscono invece per la capacità di rappresentare gli atti di violenza (e i loro esecutori) in un modo repellente e – forse proprio per questo – particolarmente realistico.

Sebbene questo genere abbia avuto una vita piuttosto breve e nei fatti circoscritta ad una ben precisa stagione del cinema hollywoodiano, alcuni dei suoi elementi di base possono essere individuati in numerosi film successivi, ad attestare una continuità di interesse per le possibilità del cinema di mettere in scena un certo tipo di eventi. Molto cinema d’autore si è per esempio interessato alla diade violenza/vendetta e alla conseguente acquisizione di agency da parte di un personaggio femminile; è ad esempio il caso di L’angelo della vendetta (Abel Ferrara, 1981), Kill Bill volume 1 e 2 (Quentin Tarantino, 2003 e 2004), Lady Vendetta (Park Chan-Wook, 2005), Uomini che odiano le donne (Niels Arden Oplev). Allo stesso modo, il rape and revenge ha trovato diversi epigoni nel cinema di genere contemporaneo, fra i quali spiccano – per intelligenza cinefila e sensibilità nei confronti di un mutato orizzonte socio-culturale), Revenge (Coraline Fargeat, 2017) e Una donna promettente (Emerald Fennell, 2020).

Sotto accusa (Jonathan Kaplan, 1988)

Diverso per impostazione ma ugualmente capace di mettere a tema elementi chiave del problema sociale della violenza di genere è un filone di film che si interroga sulle conseguenze che gli episodi di violenza lasciano sul corpo e sull’identità di chi li subisce, considerando anche la difficoltà che spesso le vittime incontrano nell’ottenere giustizia. Steven Spielberg ha senza dubbio fatto scuola con il suo Il colore viola (1985), che declina il tema in una chiave già intersezionale per mostrare come la prevaricazione violenta fosse un efficace dispositivo di controllo nel contesto schiavista. Se la fuga rimane, per le protagoniste del film, l’unica arma a disposizione, spesso l’uso della violenza è anche in questi casi decisamente risolutore. Così la prostituta interpretata da Charlize Theron di Monster (Patty Jenkins, 2003) uccide il cliente che l’ha violentata, anche se il costo di questo gesto (reiterato nel tempo) si rivela decisamente alto. Più machiavellico è il piano messo in atto dalla protagonista di A letto con il nemico (Joseph Ruben, 1991), ma anche in questo caso l’inganno (dai richiami hitchcockiani) messo in atto ai danni del marito violento non potrà evitare una violenta escalation finale. Più concentrato sui risvolti legali di una violenza di gruppo e costruito attorno al rapporto fra le due protagoniste (vittima e procuratore), Sotto accusa (Jonathan Kaplan, 1988) drammatizza un caso di cronaca soffermandosi sulla difficoltà delle vittime di farsi ascoltare e sulle molte implicazioni che i casi del genere sollevano in sede processuale.

La violenza al cuore del racconto

Anche al di fuori degli schemi di genere, da sempre efficaci proprio perché almeno in parte rigidi, è possibile censire le presenze della violenza di genere in un certo numero di film contemporanei che hanno saputo eleggerla a vera e propria chiave di volta del racconto. David Lynch, regista visionario capace di aggiornare dall’interno le possibilità del linguaggio cinematografico portandole al limite, ha affrontato di petto questo tema sia in Velluto blu (1986) che nella serie I segreti di Twin Peaks (1990-1991). Se nel lungometraggio i gesti criminosi e violentatori di Frank diventa il grimaldello che fa saltare le certezze rassicuranti dell’utopia suburbana borghese, in Twin Peaks la violenza originaria che BOB compie ai danni della protagonista Laura Palmer diventa una sostanza infettante che, oltre a corrodere dall’interno la tenuta della comunità, penetra anche all’interno delle immagini e nelle estensioni transmediali dell’universo narrativo (esemplare è il caso del best seller Il diario segreto di Laura Palmer). 

Volver – Tornare (Pedro Almodóvar, 2006)

Di una famiglia disfunzionale al cui cuore giace la violenza di genere si occupa anche Volver – Tornare (Pedro Almodóvar, 2006), nel quale la protagonista Rosmunda scopre che la figlia Paula ha ucciso il proprio patrigno per difendersi da un tentativo di stupro. Il regista spagnolo sfrutta questo incidente scatenante per portare avanti la sua indagine personale sull’universo femminile, scegliendo una prospettiva originale e fortemente catartica nei confronti dell’incipit. Il centro del racconto è occupato dal rapporto fra Rosmunda e la figlia, che si presenta come un legame femminile forte, in grado di superare i problemi di una vita comunque modesta. Il tema dei legami familiari, che si diramano a comporre una sorta di trama matriarcale, è centrale nel film perché il ritorno al paese (un’altra ossessione narrativa di Almodóvar) diventa l’occasione per ragionare sulla resilienza individuale e comunitaria, sul modo in cui è possibile superare un trauma attraverso la condivisione del dolore. 

Visivamente aggressivo e radicale nella decostruzione della linearità narrativa è invece Irréversible (2002), uno dei lungometraggi più riusciti e disturbanti di Gaspar Noé. Al centro del racconto si pone, tanto da un punto di vista drammatico quanto strutturale, una lunga e quasi insostenibile sequenza di stupro nella quale la protagonista (Monica Bellucci) viene aggredita in un sottopassaggio. Il film è volutamente contorto nella sua strutturazione e si sviluppa a ritroso a partire dalla fine, per poi riavvolgersi attorno al momento chiave della violenza. Anche qui, come nel rape and revenge, la scena è capace di mantenersi al di fuori di qualsiasi forma di spettacolarizzazione e si ricorda soprattutto per il suo carattere repulsivo, spinto all’estremo proprio per far percepire allo spettatore un disagio quasi fisico. Si tratta di un film assolutamente radicale, capace tuttavia di portare fino in fondo le proprie premesse e di presentarsi come un caso piuttosto unico nel panorama dei film legati alla violenza di genere. 

Irréversible (Gaspar Noé, 2002)

Al contrario di Noé, Lars von Trier adotta in Dogville (2003) un approccio di tipo sottrattivo, che della povertà essenziale della messa in scena fa una cifra stilistica. Muovendosi in un mondo trasparente eppure dalla consistenza solidissima, i personaggi di questa comunità immaginaria (eppure così tipicamente americana) rendono dapprima pensabile e poi brutalmente possibile la violenza perpetrata collettivamente ai danni di una giovane donna. Dogville è, come tutti i film del suo autore, assolutamente radicale tanto nella forma quanto nel contenuto. Le modalità della rappresentazione amplificano gli aspetti più disturbanti della vicenda e rendono ancora più evidente la natura sistematica della violenza cui il corpo dell’outsider/capro espiatorio è continuamente esposto.

L’interesse che queste tematiche rivestono per la società contemporanea sembra essere confermato anche dal recente L’uomo invisibile (Leigh Whannell, 2020), che rimette in scena il classico personaggio della Universal in un contesto contemporaneo. L’aspetto più interessante del film è la sua capacità di “tradire” il testo originale posizionandolo all’interno di una lettura politica che lo rende estremamente attuale ed efficace. Più che sul “mostro”, il film pone infatti l’attenzione sul senso di aggressione e insicurezza che una vittima di violenza si trova a provare quando, nel suo spazio domestico, comincia a percepire la presenza di un’entità non visibile, la cui presenza appare però del tutto evidente. Questa nuova versione de L’uomo invisibile rende espliciti i suoi legami con il presente perché problematizza, pur all’interno di una cornice non del tutto realistica, molti aspetti divenuti rilevanti nel contesto del post-#Metoo, come la validità delle testimonianze offerte dalle vittime. 

Alcune note sul cinema italiano

Anche nel contesto italiano è possibile individuare un certo numero di film che, soprattutto nel contesto contemporaneo, hanno saputo mettere a tema una questione delicata e rilevante come quella della violenza di genere. Eccezion fatta per i documentari (fra i quali spicca ad esempio Un altro me di Claudio Casazza, 2016), il cinema di fiction ha spesso guardato con interesse al fenomeno, soprattutto in relazione alle sue implicazioni etiche. È senza dubbio il caso de Il branco (Marco Risi, 1994), nel quale il rapporto fra esecuzione della violenza, inazione e omertà è tematizzato in modo estremamente chiaro. Il protagonista del film è Raniero, un giovane romano che assiste, senza partecipare ma avendo parte rilevante nel prevenire i tentativi di fuga delle vittime, ad uno stupro di gruppo. Marco Risi riesce nel non facile compito di integrare, nella denuncia dei fatti compiuti, una riflessione di più ampio respiro sui presupposti culturali e sociali che rendono pensabile ed eseguibile questo genere di violenza, interrogando anche lo spettatore sul tipo di adesione ad un certo immaginario: accettare le narrazioni che stanno alla base della violenza senza adoperarsi per cambiarle non ci rende forse almeno in parte colpevoli?

Adattato dall’omonimo romanzo di Andrea Carraro ispirato a reali fatti di cronaca, il film evidenzia come spesso per i registi italiani la volontà di interrogare il tema della violenza di genere derivi da un dato di realtà molto forte. Lo stesso vale, in effetti, per Primo amore (2004), nel quale Matteo Garrone si rivolge ad un noto caso di cronaca (quello del “cacciatore di anoressiche” Marco Mariolini). Al di là dell’aspetto specifico legato alla ricerca spasmodica di un corpo tanto magro da essere sul punto di scomparire, il caso di Mariolini viene interrogato da Garrone come la spia di un comportamento violento e prevaricatore, che annulla non solo l’agency ma in generale l’intera identità del soggetto femminile cui si rivolge. Esemplare, in questo senso, è la scena del ristorante, dove la protagonista diventa preda dei suoi ormai incontrollabili istinti per poi essere ridotta ad un oggetto da parte del suo aguzzino (magnificamente interpretato da Vitaliano Trevisan). La violenza che alla fine Sonia rivolge al compagno, colpendolo con una mazza, non è però risolutrice: lo sguardo freddo e chirurgico di Garrone ci dice, qui come in tutto il suo cinema, che la presenza del male è una costante ineliminabile del mostro mondo. 

Primo amore (Matteo Garrone, 2004)

Anche La sconosciuta (Giuseppe Tornatore, 2006) si presenta come un caso interessante, perché capace di interrogare – a partire da un caso specifico – una serie di condizioni sistemiche. La vicenda della protagonista, inizialmente avvolta nel più completo mistero, viene disvelata a partire da una serie di flashback che ne mostrano progressivamente il passato e fanno mutare la percezione che il pubblico ha di lei. Inizialmente vista come una sorta di approfittatrice, Irena è in realtà stata vittima di una serie di indicibili violenze, che ne hanno segnato l’identità in modo indelebile. Come in altri casi visti in precedenza, anche Tornatore sfrutta le caratteristiche del linguaggio cinematografico per dare profondità a una materia particolarmente complessa, andando a rivelare aspetti drammatici e forse meno noti del racket della prostituzione. 

a cura di Giuseppe Previtali

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