Crisi climatica e sostenibilità ambientale

Nel dibattito pubblico contemporaneo le questioni concernenti la crisi climatica e la sostenibilità ambientale rientrano tra le problematiche più “scottanti”: abbiamo lasciato l’Olocene per entrare nell’Antropocene, l’epoca geologica in cui le attività umane hanno un impatto significativo sulla Terra e i suoi sistemi. Il cinema, d’altro canto, non è rimasto indifferente, e sin dagli anni Sessanta è possibile riscontrare film di finzione che, in un modo o nell’altro, strizzano l’occhio alla crisi ecologica: una lettura ecocritica del film Gli uccelli (Alfred Hitchcock, 1963), ad esempio, identifica nella ribellione di corvi e gabbiani – che, inspiegabilmente, si alleano – una sovversione della Natura che gradualmente si riappropria dei suoi spazi, spodestando in via definitiva la specie umana. In questo senso, il film di Hitchcock è il primo disaster movie in cui la catastrofe non è causata dallo scoppio della temuta bomba nucleare – come accade, ad esempio, nel film L’ultima spiaggia (Stanley Kramer, 1959) – ma dalla ribellione delle specie non-umane. 

Cli-fi: la fantascienza climatica, tra distopia ed eco-utopia 

Le speculazioni circa il futuro della Terra, nel cinema e nella letteratura, risultano in costante aumento. Questi scenari – più o meno verosimili – vengono ascritti entro la ‘climate fiction’ – sovente abbreviato in “cli-fi” – sottogenere della fantascienza climatica coniato dal giornalista Dan Bloom: a differenza di narrazioni ambientate in epoche più o meno distanti nel tempo, la climate fiction comprende storie in cui il tema principale (o secondario) è la crisi ecologica, nonché le conseguenze che essa comporta (riscaldamento o raffreddamento globale, lo scioglimento dei ghiacci, siccità, sovrappopolazione e così via).

2022: i sopravvissuti (Richard Fleischer, 1973)

Dieci anni dopo l’esperimento hitchcockiano, 2022: i sopravvissuti (Richard Fleischer, 1973) detiene il primato come lungometraggio, di produzione hollywoodiana, che tratta le questioni ecologiche attraverso la lente della fantascienza. La Terra è devastata dall’inquinamento, dalla sovrappopolazione e dall’aumento delle temperature: i pochi Eden naturali rimasti vengono sorvegliati giorno e notte dall’esercito, mentre le nuove generazioni crescono senza essere a conoscenza della fisionomia della Terra prima della degenerazione dei suoi ecosistemi. Seppur realizzato entro i canoni di produzione mainstream, il film di Fleischer ha saputo recepire e metabolizzare le riflessioni di natura ecologica formalizzate nel corso degli anni Settanta, dalla teoria delle “tre ecologie” di Félix Guattari al concetto di ‘ecologia profonda’ di Arne Naess. Contestualmente a 2022: i sopravvissuti, il film 2002: la seconda odissea (Douglas Trumbull, 1972) recepisce gli stimoli derivati dalle preoccupazioni verso il collasso degli ecosistemi terrestri pur mantenendosi più aderente all’immaginario dei viaggi spaziali di kubrickiana memoria. La Terra è lontana, e un gruppo di botanici, con il supporto dell’intelligenza artificiale, ha il compito di costruire ex-novo degli ambienti naturali e custodirli al riparo dall’urbanizzazione selvaggia che ha devastato il pianeta. In questa stazione spaziale ‘eco-topica’ – sincrasi di “ecologia” e “utopia” – i robot vengono impiegati come giardinieri per la salvaguardia di nuovi Eden, custoditi all’interno di vere e proprie serre spaziali: quando viene impartito l’ordine di interrompere la missione, il botanico Lowell Freeman, un vero e proprio ‘giardiniere spaziale’, sceglie la via dell’ammutinamento ed inizia così una “corsa silenziosa” per il cosmo. Non è senza cognizione di causa, dunque, che molti anni dopo l’uscita di 2002: la seconda odissea, la Pixar realizza il film d’animazione Wall-E (Andrew Stanton, 2008) e affida al robot protagonista il compito di salvare una piccola pianta color smeraldo, nata per miracolo da una Terra completamente sommersa dai rifiuti.

Wall-E (Andrew Stanton, 2008)

Nonostante gli esempi sopracitati, l’impiego della cli-fi quale prisma culturale entro cui imbastire le riflessioni di matrice ecologica, ha avuto il più delle volte esiti dal gusto catastrofista. Forse il più celebre lungometraggio hollywoodiano di fantascienza climatica è il campione d’incassi The Day After Tomorrow (Roland Emmerich, 2004) – o comunque, il disaster movie al quale più comunemente si rimanda quando vengono citate le caratteristiche della climate fiction. «A tempesta finita, saremo in una nuova era glaciale» è la sentenza pronunciata dal climatologo Jack Hall durante la conferenza delle Nazioni Unite: dopo aver assistito a un consistente distacco di una porzione di banchisa in Antartide, lo scienziato prevede una drastica inversione delle correnti oceaniche che, in poco tempo, causeranno un brusco calo delle temperature e una nuova glaciazione. A fronte del crescente innalzamento delle temperature al centro del dibattito contemporaneo, è evidente come l’idea principale del film, ossia il rapido congelamento della Terra (una sorta di “inversione climatica”), abbia subito dei forti contraccolpi, pur essendo stata fonte d’ispirazione per survival movies come Snowpiercer (Bong Joon-Ho, 2013). Eppure, a distanza di quasi vent’anni dall’uscita del film, resta vivida e vincente la narrazione della crisi climatica quale contrapposizione fra un’umanità che cerca disperatamente di autoconservarsi e la furia cieca della Natura. In altri casi, l’alterazione della fisionomia della Terra produce devastanti scissioni all’interno della società. In Waterworld (Kevin Reynolds, 1995), ad esempio, il cowboy solitario interpretato da Kevin Costner fronteggia un gruppo di pirati steampunk che seminano terrore in una Terra in cui tutti i ghiacciai si sono sciolti a causa del riscaldamento globale. Anche nella distopia di The Road (John Hillcoat, 2009), basata sull’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, l’umanità si è infranta in piccoli nuclei che lottano per la sopravvivenza: in questo caso, il mutamento degli ecosistemi è stato generato da una catastrofe non meglio precisata che ha reso il pianeta un deserto arido e grigio. 

The Road (John Hillcoat, 2009)

Oltre i limiti narrativi imposti da disaster movies e affini, le prospettive della fantascienza climatica hanno incontrato, in almeno due casi, le potenzialità della satira quale espediente utile per rendere evidenti i contraddittori comportamenti umani nei confronti delle questioni ambientali. In Downsizing (Alexander Payne, 2017), le prospettive eco-topiche vengono tradotte nella riduzione, per via biologica, delle dimensioni degli esseri umani, ai fini dell’abbattimento della loro impronta carbonica sul pianeta: nonostante i superficiali vantaggi di tale proposta “green”, nel corso del film vengono evidenziate le molteplici contraddizioni di questa nuova società in miniatura. La vena satirica è la marca che contraddistingue anche il più recente Don’t Look Up (Adam McKay, 2021): l’impatto di un’enorme cometa ‘killer di pianeti’ e lo struggimento di un gruppo di astrofisici per cercare di sensibilizzare l’umanità circa il disastro imminente non sono che le allegorie del riscaldamento globale e della difficile comunicazione dello stesso da parte della comunità scientifica. 

Eco-eroi ed eco-eroine dei legal thriller

I temi della crisi ecologica e della sostenibilità ambientale non sono stati solo oggetto di film fantascientifici. Il sottogenere dei legal thriller, quel filone che include lungometraggi d’inchiesta e/o ambientati nelle aule di tribunale, è un terreno fertile per la trattazione delle questioni ecologiche, sovente tradotte nella denuncia di attività illecite e anti-ecologiche da parte di imponenti industrie e società di produzione. In questo sottogenere, spiccano le figure di eco-eroi ed eco-eroine – spesso ispirate a personaggi realmente esistiti – che si ritrovano a indagare su attività illegali che producono un impatto negativo sia su piccole comunità che sull’ambiente. In particolare, l’inquinamento delle falde acquifere da parte di industrie chimiche è un tema che viene trattato a più riprese in diversi legal thriller (soprattutto hollywoodiani): in Erin Brockovich (Steven Soderbergh, 2000), l’eco-eroina interpretata da Julia Roberts indaga sulla Pacific Gas and Electric Company, la cui produzione ha prodotto un consistente impatto sulla cittadina di Hinkley, causando la contaminazione di corsi d’acqua e l’aumento di casi di tumore nei residenti.

Erin Brockovich (Steven Soderbergh, 2000)

Anche l’avvocato Jan Schlichtmann di A civil action (Steven Zullian, 1998) è in lotta con due industrie del Massachusetts ree di aver scaricato residui tossici nella falda acquifera che serve una piccola comunità. Agisce in maniera inversa, invece, il lungometraggio Promised Land (Gus Van Sant, 2012): il compito del venditore Steve Butler è di convincere una piccola comunità agricola a vendere i propri terreni dai quali estrarre gas naturale attraverso il rischioso metodo della fratturazione idraulica, facendo di lui un vero e proprio “anti-eco-eroe”; solo il contatto ravvicinato con la cittadina condurrà Steve sulla strada della redenzione e, di conseguenza, dei valori genuini di una vita in armonia con l’ambiente.

La solastalgia degli eco-terroristi 

In contrasto con la narrazione dei legal thriller, in cui si riscontra uno schema narrativo buoni vs. cattivi, film come First Reformed (Paul Schrader, 2017) e La donna elettrica (Benedikt Erlingsson, 2018) mettono in scena i timori esistenziali di individui che, dopo aver appreso le devastanti conseguenze della crisi ecologica, producono azioni che fanno di loro degli “eco-terroristi”. In questi termini, è opportuno parlare di solastalgia – neologismo che descrive il disagio psicologico causato dal cambiamento climatico – e di “eco-ansia”.

La donna elettrica (Benedikt Erlingsson, 2018)

First Reformed narra il cammino tormentato del reverendo Ernst Toller, dalla disperazione alla ricerca di un equilibrio interiore. Quando la sua fede inizia a vacillare, a seguito della morte prematura del figlio, Toller s’imbatte nella figura altrettanto tormentata di Michael, un ambientalista tediato dal collasso degli ecosistemi. Il reverendo, in seno al ‘silenzio di Dio’, introietta il dramma di Michael e ne viene sconvolto: l’unica soluzione, dinanzi a una comunità che ignora le istanze ambientaliste, pare un atto di violenza estrema che possa sconvolgere così come le inquietanti proiezioni scientifiche sul futuro prossimo. Fedele ai temi caratterizzanti la sua produzione come sceneggiatore e regista – la redenzione, la solitudine e il senso di colpa – Paul Schrader mostra la possibilità di una narrazione della crisi ecologica smarcata, specialmente, dal filone fantascientifico: il collasso ambientale, in First Reformed, è un tema quanto più attuale, e ne sono prova le immagini che, nel corso del film, scorrono dinanzi agli occhi di Toller e producono in lui una fortissima solastalgia. 

Dal cinema islandese proviene, invece, il film di Benedikt Erlingsson incentrato sulla figura (fittizia) di Halla, la “donna elettrica”: a differenza del reverendo Toller, la donna viene apertamente bollata come “eco-terrorista”, giacché le sue azioni eco-militanti consistono nel sistematico danneggiamento degli impianti siderurgici e delle linee elettriche di Reykjavík che causano non solo la deturpazione del paesaggio, ma anche l’aumento dell’effetto serra. Tuttavia, la possibilità di adottare una bambina ucraina, dopo anni di attesa, modifica radicalmente la prospettiva di Halla sul mondo: la solitaria “donna elettrica” diventa consapevole che, nonostante la crisi degli ecosistemi terrestri, è necessaria l’appartenenza a una comunità umana per poter sopravvivere e, di conseguenza, per smarcarsi da un eco-terrorismo autodistruttivo.  

Una scomoda verità: breve excursus nel documentario 

Uscendo dal raggio d’azione della fiction, a partire dagli anni Duemila sono stati realizzati diversi documentari narranti cause e conseguenze della crisi ecologica. Il punto di svolta, in questa produzione, è l’assegnazione del Premio Oscar come Miglior Documentario a Una scomoda verità (Davis Guggenheim, 2006), film non-fiction che, mediante l’eloquenza dell’ex-vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore, ha reso evidenti – e comprensibili – i rischi del riscaldamento globale a partire dalle rilevazioni scientifiche. “Il film più terrificante che abbiate mai visto” è una delle tagline prodotte per la commercializzazione del documentario, frase a effetto che lascia facilmente intuire il tono catastrofista e poco rassicurante della narrazione. Questa forma di storytelling – più o meno simile a quella dei disaster movies e della climate fiction – è stata assorbita, nel corso degli anni, da successivi film non-fiction riguardanti il tema: fra questi, Antropocene – L’epoca umana (Jennifer Baichwal, Nicolas de Pencier, Edward Burtynsky, 2018) ha saputo raccogliere la sfida della proposta epoca geologica – l’Antropocene – mostrando i segni dell’attività antropica sul Pianeta senza limitarsi ai soli territori occidentali. Anche Punto di non ritorno – Before the flood (Fisher Stevens, 2016) ha segnato una svolta nella comunicazione della crisi climatica e ambientale: il portavoce delle istanze è l’attore Leonardo Di Caprio, il quale viene ripreso durante le sue conversazioni, a proposito del cambiamento climatico, con le più importanti personalità della Terra. La scelta di impiegare figure note per la sensibilizzazione verso la crisi ambientale accomuna anche il documentario Trashed (Candida Brady, 2012), narrato dall’attore Jeremy Irons, nonché la serie documentaria Years of living Dangerously (2014-2016) in cui figurano, fra gli altri, David Letterman, Arnold Schwarzenegger e Ty Burrell. 

Punto di non ritorno – Before the flood (Fisher Stevens, 2016)

Non solo crisi ecologica: negli ultimi anni, diversi documentari hanno affiancato alla trattazione del tema il termine opposto, la sostenibilità. Ne è un esempio Cowspiracy – Il segreto della sostenibilità ambientale (Kip Andersen, Keegan Kuhn, 2014), film non-fiction che segue il percorso del coregista Kip Andersen nella sua attività di sensibilizzazione verso l’inquinamento e la crisi climatica. Lo stesso tono è assunto, fra gli altri, da Seaspiracy – Esiste la pesca sostenibile? (Ali Tabrizi, 2021), David Attenborough: A life in Our Planet (Jonathan Hughes, Alastair Fothergill, Keith Scholey, 2020), Brave Blue World: Racing to Solve our Water Crisis (Tim Neeves, 2020) e Ice on Fire (Leila Conners, 2019): documentary che, in una forma o nell’altra, mostrano che, nonostante l’inequilibrio degli ecosistemi, è necessario non solo ricercare soluzioni efficaci, ma anche comunicare i rischi del nostro modo di vivere attuale. 

a cura di Shannon Magri

 

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