Criminalità organizzata e legalità
Il cinema, soprattutto quando insegue la sua declinazione più eminentemente commerciale, ha sempre flirtato da vicino con la criminalità, considerata come un elemento fascinatorio capace di decostruire l’immaginario eroico tipico, per esempio, di certi film hollywoodiani. Esemplare in questo senso è già il caso di Scarface – Lo sfregiato (Howard Hawks, 1932) che – prima dell’istituzionalizzazione del codice di autocensura – offre allo spettatore la storia maledetta di un gangster la cui vicenda è più o meno scopertamente ispirata a quella del leggendario Al Capone. Se durante il classicismo maturo di Hollywood sarà (proprio per la presenza del codice Hays) quasi impossibile trovare film altrettanto capaci di mitizzare l’immagine del gangster, è soprattutto a partire dall’epoca della New Hollywood che la nuova attenzione sugli antieroi permetterà a questi personaggi oscuri di proliferare.
Lo si vede già da Gangster Story (Arthur Penn, 1967), dove la vicenda dei due protagonisti diventa il pretesto ideale per indagare le contraddizioni di un Paese che si scopriva improvvisamente più moderno e problematico. La mitizzazione del crimine di stampo mafioso ha senza dubbio raggiunto un importante punto di svolta con la trilogia inaugurata da Il padrino (Francis Ford Coppola, 1972), opera titanica che ha la pretesa di raccontare, in tre parti magnificamente connesse fra loro dalle performance dei protagonisti, il continuo mutare di aspetto e metodi della criminalità organizzata italo-americana. I pochi esempi riportati, che finiranno per condizionare tutta una linea del cinema contemporaneo, che spazia da La promessa dell’assassino (David Cronenberg, 2007) a The Irishman (Martin Scorsese, 2019).
Viaggio in Italia: dal cinema di genere all’impegno civile
Se una delle tendenze ricorrenti quando si parla delle rappresentazioni cinematografiche del crimine (in special modo di stampo mafioso) è quello di camminare sul crinale eticamente problematico della mitizzazione del male, il caso italiano risulta particolarmente eterogeneo e problematico, forse proprio a causa della prossimità con tutta una serie di fenomeni criminosi che sono andati manifestandosi nel corso della storia recente del paese. Criminali, poliziotti, giudici e magistrati sono figure ricorrenti nella cinematografia nazionale e, anche se non è sempre facile identificare delle strategie ricorrenti di messa in scena o narrazione, è senza dubbio possibile identificare delle linee di sviluppo che hanno accompagnato questi discorsi.
Gli anni Settanta sono stati, come è noto, un decennio molto complesso per l’Italia del dopoguerra e, in un clima di tensione e generale insicurezza culturale e politica destinato a farsi sempre più greve, anche il cinema di genere ha saputo svolgere un ruolo rilevante. Sono questi gli anni d’oro del cosiddetto poliziottesco, un sottogenere di consumo che – proprio muovendo dai fatti di cronaca di quel periodo – mostra allo spettatore scenari urbani degradati, dove la criminalità organizzata spadroneggia ai danni della cittadinanza. A fare gli interessi della popolazione sono poche figure eroiche di commissari e funzionari di polizia, che si ritrovano a dover forzare i confini della legalità in un contesto nel quale il potere statale risulta quanto mai fragile. La centralità esercitata dalla mafia in queste narrazioni è evidente sin dai titoli; solo per fare qualche esempio vale la pena di ricordare: Scacco alla mafia (Lorenzo Sabatini, 1970), Camorra (Pasquale Squitieri, 1972), Baciamo le mani (Vittorio Schiraldi, 1973), La padrina (Giuseppe Vari, 1973), Milano: il clan dei calabresi (Giorgio Stegani, 1974), Squadra antimafia (Bruno Corbucci, 1978), Da Corleone a Brooklyn (Umberto Lenzi, 1979).
Se il poliziottesco, pur essendo spesso animato da un sincero desiderio di radiografare le storture del paese, correva il rischio di rendere eccessivamente spettacolare un tema tanto problematico, sempre in quegli anni numerosi autori realizzano dei film mossi da una autentica intenzione civile e politica. Esemplare è il caso di Francesco Rosi, che se già in Salvatore Giuliano (1962) e Le mani sulla città (1963) aveva dimostrato la capacità della macchina-cinema di farsi strumento d’inchiesta, affronta di petto il tema della mafia con Lucky Luciano (1973) e Cadaveri eccellenti (1976). Anche quando decide di mettere in scena la biografia di un boss malavitoso, Rosi non è mai indulgente e riesce ad evitare qualsiasi forma di spettacolarizzazione, perché il suo sguardo cade – più che sui personaggi – sulle condizioni sociali, culturali e politiche che ne hanno reso possibile l’ascesa e, cosa ancor più importante, sulle connivenze fra i poteri statali e quelli criminali. Già in Salvatore Giuliano, poi, Rosi porta l’attenzione del pubblico anche sulle istanze processuali, sulle forme che la legalità possiede per combattere la mafia ed è forse in questo aspetto che si annida uno dei tratti più tipici del suo civismo.
Lo stesso si può dire per il cinema impegnato di Florestano Vancini, che ha rivolto la sua attenzione al fenomeno mafioso in almeno un paio di occasioni. Particolarmente rilevante è il caso di La violenza: quinto potere (1972); qui il regista si interessa ad un caso giudiziario specifico (la costruzione di una diga) per indagare le modalità con cui la criminalità organizzata assorbe gli urti causati dai processi e dagli arresti, arrivando a diagnosticare la quasi impotenza dello Stato di fronte a un sistema così ben innervato e resiliente. Elio Petri affronta invece il rapporto fra crimine e narrazione d’inchiesta in A ciascuno il suo (1967), che adatta piuttosto liberamente l’omonimo scritto di Sciascia per interrogare le modalità con cui i delitti di mafia spesso (non) fanno notizia. Una stessa forma di impegno civile muove anche Damiano Damiani, che torna a Sciascia con Il giorno della civetta (1968), che rappresenta magnificamente gli sforzi di un ufficiale dei Carabinieri impegnato nella lotta alla mafia.
Un regista in prima linea: Giuseppe Ferrara
Seppur tendenzialmente più tardi rispetto ai film menzionati sino a questo punto, anche i lavori di Giuseppe Ferrara sono assolutamente meritevoli di attenzione, perché interrogano il fenomeno mafioso con un occhio assolutamente peculiare. Il sasso in bocca (1969) è in questo senso già del tutto esemplare, perché si presenta come un docufilm sulla mafia che alterna materiale d’archivio e ricostruzioni finzionali, confondendo così lo statuto di verità delle immagini, in una soluzione di notevole effetto (la stessa soluzione verrà adottata anche nel successivo Faccia di spia, 1975).
Con Cento giorni a Palermo (1984), Ferrara torna ad interessarsi di uno degli episodi più noti nella storia della lotta alla mafia, quello dell’insediamento del generale Carlo Alberto dalla Chiesa come Prefetto di Palermo. È il 1982 e sono anni infuocati in Sicilia, segnati dalla morte di personaggi illustri come Boris Giuliano e Piersanti Mattarella; dalla Chiesa viene mandato nella tana del lupo ma si ritrova ben presto impossibilitato ad agire perché nessuno sembra veramente interessato a cambiare le cose. Il film di Ferrara è tutto costruito attorno alla figura titanica del generale (interpretato magnificamente da Lino Ventura), solo in un luogo ostile eppure convinto più che mai della legittimità della sua battaglia. Abbandonate le sperimentazioni a cavallo fra fiction e documentario Ferrara costruisce un film tutto imperniato sulla potenza della narrazione e sull’esempio del suo protagonista, che diventa modello di eroica abnegazione.
Il medesimo spirito attraversa anche il successivo Giovanni Falcone (1993) che, nonostante le proteste emerse all’epoca della sua realizzazione, si presenta oggi come un potente strumento di sensibilizzazione rispetto alle problematiche vicende che racconta. Di nuovo, il personaggio del giudice e gli eventi che condurranno sino alla strage di Capaci, diventano qui il fulcro di un racconto tutto animato dal desiderio di mostrare al pubblico tanto la violenza omicida della mafia quanto la necessità più che mai forte di combatterla, anche attraverso l’esempio eroico di chi ha speso la vita per farlo. Il meno noto Segreto di stato (1995) costituisce un ideale punto di chiusura della ricerca di Ferrara attorno a questi temi, perché torna ad interrogarsi (anche questa volta soltanto con i modelli della fiction) sul rapporto stato-mafia, in un film volutamente polemico costruito attorno alle stragi di via dei Gerogofili e via Palestro.
Uno sguardo al cinema contemporaneo
Con riferimento al cinema italiano più recente, un importante punto di svolta corrisponde all’uscita del fortunato I cento passi (Marco Tullio Giordano, 2000), dedicato alla vita di Peppino Impastato e della sua lotta contro Cosa nostra. Il film ha avuto prima di tutto il merito di rendere nota al grande pubblico la tragica vicenda di Impastato, la cui morte – avvenuta lo stesso giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro – era passata praticamente sotto silenzio. Accolto con favore da critica e pubblico e presto divenuto un ideale punto di riferimento per tutte quelle narrazioni che intendevano confrontarsi con il tema della mafia, il film di Giordana ripercorre la vita del suo protagonista seguendone da vicino le azioni e presentando allo spettatore la vicenda esemplare di un uomo che ha fatto dell’impegno per la legalità la sua ragione di vita. Sulla stessa linea si muove anche l’altrettanto coraggioso Fortapàsc (Marco Risi, 2009), che ricostruisce la vita e la tragica scomparsa del giornalista Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra napoletana per le sue indagini coraggiose. Impastato e Siani diventano così due eroi della lotta alla criminalità organizzata, le cui vicende biografiche vengono registrate dall’occhio della macchina da presa come monito e invito alla resistenza.
Non sono certo mancati, anche nel cinema italiano più recente, film che hanno guardato con un occhio più obliquo al fascino del male, contrbiuendo in qualche modo alla sua mitizzazione: si pensi, solo per fare qualche esempio, a Romanzo criminale (Michele Placido, 2005), Vallanzasca – Gli angeli del male (Michele Placido, 2010), Pericle il nero (Stefano Mordini, 2010) e Anime nere (Francesco Munzi, 2014). Tuttavia, emerge in questi film un desiderio metariflessivo di interrogarsi sul modo in cui i media influiscono sulla mitizzazione del crimine e il caso più maturo ed interessante in questo senso è certamente offerto da Gomorra (Matteo Garrone, 2008). Adattando il best seller di Roberto Saviano, Garrone mostra una consapevolezza profonda del modo in cui un certo cinema (e un certo giornalismo) contribuiscono alla costruzione di un immaginario mitologico che finisce con l’avere un impatto dirompente sulle giovani generazioni, come dimostra anche il più recente La paranza dei bambini (Claudio Giovannesi, 2019). Il film di Garrone ha poi contribuito a costruire una sorta di nuovo stile nella narrazione dei crimini di mafia, che recentemente trova nei fratelli Fabio e Damiano d’Innocenzo i suoi interpreti migliori, come dimostra il loro esordio La terra dell’abbastanza (2018).
Anche la vocazione più autenticamente civica vista all’opera nei film del passato si ripensa nello scenario contemporaneo, con film molto diversi fra loro ma ugualmente interessati a rendere il pubblico cosciente della necessità di una presa di posizione forte. È il caso del film di Pif La mafia uccide solo d’estate (2013), dove il pretesto autobiografico diventa il grimaldello per scardinare il senso di passività che spesso attraversa tanto chi vive nei territori colpiti dalla mafia quanto chi (come gli ideali spettatori del film) ne apprende le efferatezze attraverso i media. Sulla linea tracciata da Giuseppe Ferrara pare situarsi invece un film come Prima che la notte (Daniele Vicari, 2018), dedicato alla vicenda biografica del giornalista Giuseppe Fava e capace ancora una volta di far emergere lo statuto eroico del suo protagonista.
In un mondo nel quale la criminalità organizzata corre sempre più sottotraccia, infiltrandosi nel tessuto urbano e nelle più diverse attività economiche, una menzione particolare merita il film Selfie (Agostino Ferrente, 2019), che pur non affrontando direttamente il tema, mostra come quella malavitosa sia a volte l’unica strada che rimane a chi si trova a vivere in situazioni di disagio e precarietà che sembrano essere ormai endemiche. La scelta di affidare direttamente ai suoi protagonisti la realizzazione delle riprese (in modalità selfie, appunto), fa del film di Ferrente un interessante esperimento estetico, permeato da un sincero interesse umano per le vicende di chi si trova a vivere in luoghi dove ancora troppo spesso la mafia sa sostituirsi allo stato.
a cura di Giuseppe Previtali