Il lavoro femminile

Certamente non è un caso che il primo film della storia del cinema – L’uscita dalle officine Lumière (Fratelli Lumière, 1895) –, pur nella sua essenzialità, ponesse in continuità il mondo del lavoro e quello delle immagini in movimento. L’organizzazione moderna del lavoro (al crocevia fra taylorismo e fordismo) ha influito in modo evidente sulla nascente industria cinematografica ed è scontato che il cinema abbia cercato di riflettere attraverso le sue potenzialità espressive su luci e (soprattutto?) ombre dell’ambiente lavorativo. Pescando casualmente, si possono ricordare le nevrosi dell’operaio di Tempi moderni (Charlie Chaplin, 1936), letteralmente inghiottito dagli ingranaggi della macchina, le masse spersonalizzate che alimentano dal basso la città di Metropolis (Fritz Lang, 1927) o le assurde e grottesche situazioni in cui si trova un inetto ragioniere nella saga aperta da Fantozzi (Luciano Salce, 1975). Gli esempi potrebbero proseguire all’infinito, ma se si comincia a intuire che una delle direttrici attorno a cui si coagulano queste rappresentazioni è quella della dialettica tra corpo individuale e corpo collettivo, balza all’occhio un altro fatto eclatante: buona parte delle rappresentazioni del lavoro al cinema sembrano automaticamente mettere in scena personaggi maschili.

Sotto il segno di Hollywood

Alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, nel suo Cinema e piacere visivo la teorica femminista Laura Mulvey sottolineava come nel cinema hollywoodiano classico si fosse generata una sorta di alleanza fra il dispositivo cinematografico e lo sguardo maschilista/patriarcale. Non soltanto nella maggior parte dei casi i personaggi femminili erano passivi, a tutto vantaggio di un’agency maschile, ma anche nei rari casi in cui alle donne era concesso il privilegio di operare direttamente sullo schermo, le loro azioni erano sempre inquadrate nello sguardo di un personaggio maschile, come avviene in una celebre e istruttiva sequenza de La finestra sul cortile (Alfred Hitchcock, 1954). 

Se è senza dubbio vero che la diagnosi di Mulvey, oltre al suo valore storico, mantiene un interesse metodologico per l’analisi delle rappresentazioni femminili nel cinema contemporaneo, va però riconosciuto che già nel cinema classico esistevano figure femminili in grado di manifestare una propria agentività, pur soltanto in determinati contesti sociali e lavorativi. Si pensi in particolare al ricco campionario di figure che anima due generi di punta come la commedia e il melodramma, nei quali la donna è il vero cuore della vicenda e ordisce i fili della narrazione. Del tutto esemplari in questo senso sono i personaggi di Hildy ne La signora del venerdì (Howard Hawks, 1940), quello di Susan in Susanna! (Howard Hawks, 1938) o le protagoniste, tutte diverse eppure così simili, di Lettera a tre mogli (Joseph L. Mankiewicz, 1949). È senza dubbio vero che spesso in questi film il vincolo matrimoniale finirà per addomesticare la potenziale eversività del femminile, ma è già a quest’altezza cronologica che si individuano i primi germi di una nuova possibile narrazione. 

Susanna! (Howard Hawks, 1938)

Oltre il domestico

Restringendo lo sguardo sul cinema contemporaneo è possibile notare come, soprattutto negli ultimi decenni, una nuova e più specifica attenzione sia stata riservata al problematico rapporto fra genere femminile e lavoro. Questo deriva certamente da un maggior protagonismo di registe e sceneggiatrici, spesso direttamente implicate nella realizzazione di questo tipo di film, ma anche da una necessità autenticamente sociale di ragionare sulle trasformazioni del mondo del lavoro in un periodo che, dopo la grande ubriacatura ottimistica degli anni Ottanta, si configura come di lunga e continua crisi. Un punto di partenza privilegiato in questo senso è offerto dal delicato Pane e tulipani (Silvio Soldini, 2000), che mette a tema in modo chiarissimo la mancata percezione del ruolo femminile dentro i confini del domestico e della sfera familiare. Rosalba, una casalinga come tante, viene “dimenticata” in autogrill durante un viaggio organizzato. Prima che qualcuno si accorga della sua assenza, decide di intraprendere un viaggio (che è anche e soprattutto occasione di fuga e scoperta di sé) a Venezia. Fra le calli della città lagunare, la protagonista esplora uno spazio di possibilità fino a quel momento impreviste, mentre il marito Mimmo fa i conti con l’onerosa gestione della casa. Il film afferma chiaramente come lo spazio della donna non sia necessariamente quello domestico, in contrapposizione al conservatorismo che ancora abita parte della società italiana.

Suffragette (Sarah Gavron, 2015)

Suffragette (Sarah Gavron, 2015) affronta – pur con lo sguardo rivolto agli anni Dieci del Novecento – la medesima questione. Siamo a Londra nel pieno delle proteste femminili per il suffragio. Sfuggendo qualunque rischio di mera illustrazione didattica, il film introduce alla vicenda attraverso il punto di vista di Maud, una giovane donna apparentemente del tutto inserita nelle dinamiche sociali del tempo (lavora duramente in una lavanderia, ha un marito e un bambino). La sua vita cambia irrimediabilmente quando, suo malgrado, diventa testimone delle azioni delle suffragette che, adottando metodi che decostruiscono dall’interno l’immaginario tipicamente associato al femminile, ricorrono ad atti sempre più eclatanti per chiedere il voto. Quest’esperienza mostra a Maud l’esistenza di un altrimenti, la possibilità di una vita diversa per sé e per tutte le donne: sarà lei stessa a deporre in Parlamento dando voce ai turni di lavoro massacranti, all’assenza di qualsiasi forma di tutela e all’esposizione delle operaie alle attenzioni sessuali del datore di lavoro. Suffragette racconta, con dovizia documentaria, la vicenda di donne che escono (anche con violenza) dai limiti imposti dal domestico e chiedono un riconoscimento all’interno dello spazio pubblico.

Sacrificabili

I fratelli Dardenne sono senza dubbio fra i registi contemporanei che più da vicino hanno affrontato l’intricata relazione fra lavoro e femminile almeno a partire dal seminale Rosetta (Jean-Pierre e Luc Dardenne, 1999), racconto plumbeo sul tentativo della protagonista di affrancarsi, attraverso il sudore della fronte e una costante ricerca di miglioramento, da una condizione familiare estremamente disagevole. È un film crudo e tragico che, recuperando e reinterpretando le suggestioni del migliore cinema sociale alla Ken Loach, mostra il tentativo continuamente frustrato di migliorare la propria condizione. Quindici anni più tardi, con Due giorni, una notte (Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2014), i due cineasti tornano a esplorare questo tema, ma nel frattempo è lo stesso mondo del lavoro a essere cambiato, divenendo al contempo più automatizzato e (se possibile) più spietato. La protagonista Sandra rientra al lavoro dopo un periodo di depressione e scopre di non essere più necessaria; ricattata dal datore di lavoro, passerà il fine settimana a convincere i propri colleghi a votare per riammetterla in servizio. La sua vicenda è tristemente ordinaria e i Dardenne mettono in scena questo dramma quotidiano evidenziando impietosamente come il fatto che Sandra sia una donna (e per di più una donna fragile) l’abbia resa meno necessaria nel contesto di un’attività che procede a sacrificare la presenza umana, erodendo i rapporti umani fra colleghi e favorendo una più spiccata competizione.

Tutta la vita davanti (Paolo Virzì, 2008)

Sulle drammatiche caratteristiche di un certo lavoro contemporaneo lavora anche Tutta la vita davanti (Paolo Virzì, 2008). Virzì, senza dubbio uno degli autori più attenti alle conseguenze che il lavoro ha sull’identità femminile (come aveva già illustrato emblematicamente il personaggio di Giovanna in Ovosodo, 1997), mette qui in scena il mondo dei call center, soffermandosi sia sull’emersione di comportamenti inopportuni che sulla loro denuncia all’interno del dibattito pubblico. La protagonista Marta, con alle spalle una carriera di precariato universitario, si ritrova lavorare con un discreto successo come telefonista ed è qui che viene a contatto con una selva di personaggi diversi e variamente (dis)umani. Il film rappresenta con grande realismo il senso di insicurezza e sincera angoscia che le giovani generazioni provano di fronte all’incapacità del sistema lavorativo di assorbire le loro competenze, evidenziando in modo assolutamente chiaro come il genere femminile sia più esposto a questo tipo di fragilità a causa di un culto della performance e dello squalismo lavorativo che sono ormai parte integrante del mondo produttivo. Emblematico è in questo senso il personaggio di Daniela, la capotelefonista, rappresentata come un personaggio al limite della psicosi, il cui tratto più interessante è però proprio quello di essere perfettamente integrata in un sistema che si avvantaggia della precarietà lavorativa cui è continuamente esposto il femminile, ingenerando una sorta di loop che non fa altro che rafforzarla.

Donna, razza e classe

Una parte rilevante dei film contemporanei che hanno affrontato il mondo del lavoro dal punto di vista femminile (e che non sorprendentemente provengono dagli Stati Uniti) ha incrociato questa traiettoria anche con il tema dell’identità razziale. Angela Davis (una delle voci più importanti del femminismo nero, da cui riprendiamo il titolo di questo paragrafo) ha avuto il merito di illustrare in modo molto chiaro come sia necessario adottare un’ottica in qualche modo intersezionale quando si affrontano i temi del lavoro e del femminile, triangolandoli con quello della razza. Se il maschilismo e la precarietà lavorativi sono in qualche modo interconnessi, allora l’esperienza di precarietà che le donne vivono è a sua volta complicata dal loro posizionamento di classe e dall’esposizione o meno a forme di razzismo.

The Help (Tate Taylor, 2011)

Lo si vede molto bene in The Help (Tate Taylor, 2011), ambientato non a caso nel Mississippi degli anni Sessanta. Qui la protagonista (la giovane ragazza bianca Skeeter) decide di inseguire i suoi sogni giornalistici raccontando la vicenda delle donne nere del luogo, impiegate nella quasi totalità dei casi come domestiche dei bianchi. Attraverso i loro racconti lo spettatore percepisce la drammaticità di una condizione di subalternità lavorativa e non solo cui le donne nere sono sempre state esposte (di nuovo, si vede qui l’influenza di Davis). Pur essendo ambientato in un passato recente, The Help ci spinge a chiederci quali forme di precarizzazione della vita delle donne nere siano ancora oggi in gioco, in un momento nel quale assistiamo alla risorgenza dei razzismi (mai definitivamente scomparsi) e alla crisi del mondo del lavoro (sospeso tra forme di automazione e nuovi schiavismi). Tornare ad affrontare di petto il periodo della segregazione razziale (come fa fra gli altri anche Il diritto di contare, Theodore Melfi, 2016) è allora un punto di partenza fondamentale, anche grazie alle potenzialità del cinema. 

a cura di Giuseppe Previtali

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