Invecchiamento e qualità della vita

L’età anziana ha sempre rappresentato una sfida per i registi cinematografici, che solo raramente hanno scelto di dedicarle un’attenzione specifica e sempre ricorrendo a simbolismi e idealizzazioni. Il cinema classico hollywoodiano, inteso come orizzonte nel quale hanno preso forma gli elementi chiave dell’immaginario cinematografico occidentale, dedica infatti poco spazio alla questione dell’aeging, mettendo solo in pochi casi dei protagonisti senili al centro della scena. Esemplare è certamente il caso di Viale del tramonto (Billy Wilder, 1950), nel quale il personaggio di Norma Desmond racconta anche il trapasso verso una nuova stagione del cinema attraverso il gioco di rispecchiamento fra l’attrice (Gloria Swanson) e il personaggio che interpreta. Il cinema del dopoguerra saprà mostrarsi più ricettivo nei confronti delle potenzialità cinematografiche del soggetto anziano, che si farà immagine di rilevanti questioni sociali (Umberto D., Vittorio De Sica, 1952), punto di fuga per indagare cinematograficamente i meccanismi del ricordo o del sogno (Gertrud, Carl T. Dreyer, 1964; Il posto delle fragole, Ingmar Bergman, 1957) o il conflitto fra generazioni diverse (Viaggio a Tokyo, Yasujirō Ozu, 1957). Si riscontra insomma una tendenza, piuttosto evidente guardando a ritroso alla storia del cinema, a investire di valori simbolici la figura dell’anziano, che si tratti di denunciare le storture della società o di celebrare i valori di un passato idealizzato; in questo senso anche il cinema di genere non fa eccezione, basti pensare alla grottesca rappresentazione dell’anziano privato della sua utilità sociale in Fantozzi va in pensione (Neri Parenti, 1988), soltanto per citare un caso esemplare in riferimento al cinema italiano.

Contro l’idealizzazione

Uno dei grandi meriti del cinema contemporaneo è senza dubbio quello di aver riposizionato al centro di un numero crescente di titoli l’età senile, interpretata non più come la cartina al tornasole di tutta una serie di altri fenomeni, ma finalmente come esperienza in sé stessa complessa e irriducibile a facili schematismi. Senza dubbio centrale in questo percorso si è rivelato Amour (Michael Haneke, 2012), ad oggi uno dei film più complessi e stimolanti sul tema. La coppia di anziani insegnanti di musica protagonista si trova a dover affrontare le conseguenze sempre più debilitanti della malattia, che progressivamente incrina un’esistenza “a due”. Lo sguardo del regista è diretto e lo spettatore viene accompagnato ad assistere al decorso di un male che ingenera una spirale di debilitazione tanto più insopportabile quanto più è rapida. Quello che Haneke mostra è l’evento sconcertante e inevitabile del decadimento, che nel mentre denuncia come favolistiche tutte le rappresentazioni edeniche della vecchiaia mette in stato d’accusa l’illusione vede come risolutivo il relegare la senescenza fuori dal nostro campo visivo. 

Amour (Michael Haneke, 2012)

Forse meno diretto nella sua rappresentazione ma ugualmente difficile nel suo presentarsi come un’esperienza visiva respingente, il recente Vortex (Gaspar Noé, 2021) prosegue questa linea di riflessione, che riducendo al minimo il numero dei personaggi e concentrando l’attenzione sul corpo anziano ce ne mostra la tragica fragilità.

Vortex (Gaspar Noé 2021)

Rifugge a ogni tentativo di idealizzazione della senilità anche Nebraska (Alexander Payne, 2013) un viaggio tortuoso, denso di soste e smarrimenti, per le strade della provincia americana che l’anziano Woddy e suo figlio Sam compiono insieme. Guardando al modello di Una storia vera (David Lynch, 1999), il regista compone un ritratto complesso del suo protagonista, del quale vengono mostrati tanto i desideri frustrati che le piccole e ingenue meschinità. Anche in questo caso siamo di fronte ad un racconto duale, nel quale padre e figlio si trovano a condividere un percorso di (ri-)scoperta reciproca, attraversando gli spazi di un’America minore ma piena di vita, nella quale i protagonisti (sui quali si mantiene sempre il focus visivo del film) si trovano a transitare. A parlare di viaggi di personaggi anziani nello spazio immaginario (culturale e cinematografico) americano sono diversi film contemporanei, dal poetico Lucky (2017) a Il corriere – The Mule (2018), una delle più recenti pellicole firmate da Clint Eastwood. Qui, come in Gran Torino (2008) e Cry Macho – Ritorno a casa (2021), il regista mette in scena un personaggio senile all’interno di scenari che rivisitano – pur mantenendosi aderenti al reale – situazioni archetipiche del cinema. Il caso di Eastwood è particolarmente interessante perché in queste e numerose altre opere il regista è anche personaggio che vive l’età anziana senza idealizzazioni, mostrando alla macchina da presa un corpo segnato dal tempo che tuttavia non rinuncia a percorrere in lungo e in largo le strade di un Paese che è sempre e prima di tutto uno spazio mitico. Scontroso e solitario, burbero e risolutamente controcorrente, il personaggio di Earl Stone, ritrovatosi corriere della droga, è uno dei più interessanti fra quelli presentati dal cinema di Eastwood, al di là delle complesse letture politiche al quale pure si presta così volentieri. Da icona di un certo tipo di western e di un idealizzato eroismo americano, l’attore/regista diventa qui un fuorilegge per il quale è di fatto impossibile non provare simpatia, incarnazione di un tempo che si rifiuta di passare e che con risoluta ostinatezza rifiuta di adeguarsi alle mode e al politicamente corretto.

Il corriere – The Mule (Clint Eastwood, 2018)

Divi senili

Eastwood non è certo l’unico attore che continua a calcare le scene nonostante il tempo che passa ed anzi la capacità di ripensare la propria immagine divistica adattandola all’invecchiamento del corpo sembra essere uno dei tratti distintivi del virtuosismo attoriale. Il caso di Anthony Hopkins, protagonista di The Father – Nulla è come sembra (Florian Zeller, 2020) è in questo senso assolutamente esemplare, perché il regista, adattando un testo teatrale, costruisce a partire dall’interpretazione del protagonista uno dei racconti più complessi e toccanti sul tema della demenza senile. Anziché mostrarci il deterioramento di una soggettività dall’esterno (come in qualche modo fanno Haneke e Noé), The Father prova a farci vedere il mondo dal punto di vista dell’anziano, producendo interessanti conseguenze anche sulla forma filmica. Le percezioni alterate del protagonista (che non a caso condivide con Hopkins il nome) generano infatti una serie di situazioni al limite del paradossale e disarticolano in modo inatteso la progressione della vicenda, aprendo spazi che sono al contempo di divertito disorientamento e di forte consapevolezza sulle conseguenze di un problema rilevante per la qualità della vita anziana. Il film diventa così il luogo in cui si rendono visibili i meccanismi mentali del soggetto anziano affetto da demenza, la cui vulnerabilità non viene esposta ad uno sguardo freddo, ma fatta percepire attraverso una soluzione espressiva ingegnosa e di grande delicatezza.

The Father – Nulla è come sembra (Florian Zeller, 2020)

Anche Charlotte Rampling è senza dubbio una delle attrici che meglio ha saputo interpretare personaggi in età senile, prestandosi in particolare all’interpretazione di ruoli complessi nei quali la vita routinaria che normalmente appartiene al soggetto anziano viene incrinata da un elemento inatteso. Radicale è il caso di Hannah (Andrea Pallaoro, 2017), dove la Rampling è di fatto l’unico soggetto perennemente in scena all’interno di uno spazio domestico che si fa inquietante nel momento in cui suo marito viene misteriosamente arrestato. Il regista costruisce attorno ai gesti e agli sguardi dell’attrice un film di grande intensità, che sceglie di percorrere la strada dei silenzi e del non detto, lasciando percepire la presenza di un segreto opprimente eppure mai apertamente svelato. Quello della casa si fa ancora una volta un ambiente mentale, sovraccarico di memorie che rendono complesso ogni tentativo di far ripartire la normalità e il personaggio di Hannah è straordinario nel mettere in scena una forma di composta dignità che è tipicamente femminile e che da sempre si associa ai soggetti in età avanzata.

Hannah (Andrea Pallaoro, 2017)

L’amore nella terza età

Questo tratto appartiene anche al personaggio di Kate Mercer, che Charlotte Rampling ha interpretato in 45 anni (Andrew Haigh, 2015), film che pone al centro un tema rilevante dell’età anziana ancora troppo spesso ignorato dal cinema, quello dell’amore. Gli aspetti sentimentali e sessuali della senilità, pur essendo un tabù culturale ancora ben radicato, sono assolutamente cruciali all’interno dell’esperienza di vita. In questo senso il film di Haigh costituisce una felice eccezione perché, evitando di incorrere in qualsiasi forma di idealizzazione, ci mostra le conseguenze che la riemersione di un passato tragico può avere su una geometria dei sentimenti cristallizzatasi in più di quarant’anni di matrimonio in una forma di routine. Dietro all’illusione di una rispettabilità borghese cementata dal tempo, il regista ci mostra, senza alcun sconto di pena per l’età dei suoi personaggi, l’emergere di una meschinità radicale, che travolge dalle fondamenta qualsiasi illusione sull’amore eterno.

Decisamente meno drammatico ma ugualmente capace di affrontare un tema tabù nei discorsi sulla vecchiaia è Book Club – Tutto può succedere (Bill Holderman, 2018), che recupera in forma di commedia le medesime premesse che animavano un film come Le balene d’agosto (Lindsay Anderson, 1987). Anche in questo caso, infatti, il cast è composto per la maggior parte da star hollywoodiane in età avanzata, che qui scoprono per sbaglio il best seller Cinquanta sfumature di grigio di E.L. James. È questo l’incidente scatenante di un racconto caricaturale sulla sessualità (vissuta e immaginata) nella terza età, che ogni personaggio interpreta in modo diverso, riuscendo anche a rielaborare in modo nuovo la propria immagine divistica.

Il metodo Kominsky (Chuck Lorre, 2018)

E se ad essere anziano non fosse l’attore ma il suo maestro di recitazione? È questa la serie Netflix Il metodo Kominsky (2018), ideata da Chuck Lorre. Composta da tre stagioni uscite fra il 2018 e il 2021, la serie mette al centro il personaggio di Sandy Kominsky, che dopo una deludente carriera attoriale, si reinventa guru per attori. Michael Douglas regala una performance particolarmente brillante mettendo in scena – in un interessante meccanismo di rispecchiamento fra attore e personaggio – un individuo complesso, che vive con la figlia Mindy un rapporto di genitorialità rovesciata e trova nell’amico Norman il suo naturale punto d’appoggio. Fra lutti e scelte difficili, la serie ci mostra un’immagine della senilità capace di allontanarsi dalle semplificazioni di certo cinema commerciale e abbastanza problematica da imporsi come punto di riferimento per il futuro.

a cura di Giuseppe Previtali

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