Disabilità e inclusione
Se è vero che il cinema è stato soprattutto un grande dispositivo dell’immaginario, in grado di normare i comportamenti e i modelli corporei, non sorprende la quasitotale assenza di interesse per il tema della marginalità. I meccanismi del divismo, che caratterizzano l’assetto produttivo del film sin quasi dalle sue origini, pongono in primo piano corpi ideali, performanti, che diventano un riferimento culturale imprescindibile per gli spettatori. Basti pensare alle immagini della mascolinità o della femminilità incarnate dai grandi divi del classicismo hollywoodiano, ma anche alle crisi che questi modelli hanno subito in determinati momenti della storia del medium. La storia della disabilità al cinema è dunque una storia fatta di grandi assenze, come se – ricalcando i meccanismi attivi nella società – almeno fino a un certo punto della storia non si dovesse parlare di tutti quei corpi che mettevano in crisi la norma. Esemplare è in questo senso il caso di Freaks (Tod Browning, 1932) che riprende l’immaginario di tutte quelle manifestazioni culturali (come il circo e, appunto, il freak show) che agli albori della modernità mettevano in mostra per il compiacimento visivo del pubblico borghese una serie di corporeità altre, dove spesso figuravano forme di disabilità. L’importanza storica del film di Browning risiede nel suo cercare di mostrare come dietro a queste figure (all’epoca percepite come mostruose e inquietanti) si celasse una complessa umanità, fatta di sentimenti e desideri comuni.
Imparare ad apprendere
Se Freaks costituisce un caso unico nella storia del cinema, anche per il periodo storico nel quale è stato realizzato, vi sono altri casi – seppur non numerosi – in cui il cinema ha affrontato direttamente la questione della disabilità ricorrendo a parabole per così dire “salvifiche”, che vedono una figura educativa confrontarsi direttamente con problematiche diverse, promuovendo – dopo un lungo e complesso percorso di conoscenza reciproca – forme di inclusione all’interno del sociale. Lo dimostra molto bene il caso di Anna dei miracoli (Arthur Penn, 1962), adattamento cinematografico di un dramma degli anni Cinquanta che vede protagonista una ragazza sordocieca e il problematico (ma infine risolutivo) rapporto con la sua istitutrice. Il film ci mostra la difficoltà della società tardo ottocentesca di affrontare un caso di disabilità tanto grave, sia dal punto di vista medico che pedagogico. L’incapacità del sapere scientifico di gestire la situazione è tale che la giovane Helen vive reclusa, isolata dal mondo e assecondata in ogni sua richiesta dai genitori. Soltanto ristabilendo un sano rapporto educativo la protagonista del film penetrerà nell’interiorità della giovane, riuscendo infine a costruire un linguaggio attraverso il quale rendere finalmente possibile una forma di comunicazione. Sui medesimi presupposti si basa anche Il ragazzo selvaggio (François Truffaut, 1970), atipico lavoro di uno dei padri della Nouvelle vague, qui anche nelle vesti del protagonista. Anche in questo caso la vicenda è imperniata sulla costruzione di un rapporto pedagogico fra il dottor Itarde il giovane Victor, un bambino strappato alla vita selvaggia e prontamente rinchiuso in istituto perché inadatto alla vita comune. L’ostinazione del dottor Itard, unico a ritenere Victor ancora capace di apprendere, sarà fondamentale per insegnargli progressivamente le basi dello stare insieme (che passano ancora una volta per l’acquisizione del linguaggio), ma il film di Truffaut problematizza maggiormente il tema del rapporto educativo, perché non è mai del tutto chiaro fino a che punto il disciplinamento di Victor sia eticamente accettabile.
Un’ideale sintesi di queste problematiche emerge in The Elephant Man (David Lynch, 1980), che immerge gli spettatori nel tardo Ottocento londinese, proprio alla radice di quella modernità che aveva contribuito alla canonizzazione del corpo procedendo a delegittimare qualsiasi infrazione della norma (in termini di genere, razziali e di disabilità). Il protagonista Joseph Merrick, affetto dalla sindrome di Proteo, ha un corpo deformato e vive in uno stato di semi schiavitù esibendosi in veri e propri freak show per il piacere e la curiosità della borghesia cittadina. L’intero film problematizza il tema dello sguardo come istanza culturalmente situata, mostrandoci come tanto il senso comune quanto i saperi medici “interpretino” il corpo di Merrick, giustificandone l’aspetto e razionalizzandone l’esistenza senza preoccuparsi di interrogare direttamente il soggetto del loro interesse. L’immagine di Merrick che passeggia travestito per le strade di Londra è una delle più potenti del film e ci interroga sul modo in cui la disabilità viene resa invisibile dai discorsi che attraversano il sociale. Soltanto dopo una lunga conoscenza reciproca con il dottor Treves sarà possibile scorgere, dietro i preconcetti e le supposizioni che circondano l’uomo elefante, una personalità buona e complessa, che verso il finale lancia un grido lancinante che diventa richiesta di riconoscimento (“Io sono un essere umano”).
Fra classicismo e sperimentazione
A partire dagli anni Novanta, complice anche una nuova sensibilità culturale in relazione alla disabilità e all’inclusione, il cinema incomincerà a dare una attenzione più sistematica e numericamente consistente al tema, sulla spinta del successo di alcuni film che nel tempo si imporranno come dei veri e propri classici. Il riferimento imprescindibile è senza dubbio Forrest Gump (Robert Zemeckis, 1995), nel quale la singolare vicenda dell’omonimo protagonista offre allo spettatore un punto di vista diverso e toccante su uno spaccato chiave della storia americana.
Quella di Forrest è la storia (certamente improbabile, eppure proprio per questo meravigliosa) di un individuo semplice che, contro tutti i pronostici, finisce per l’incrociare i grandi nomi (da Elvis a Kennedy) e i grandi momenti dell’immaginario statunitense. Seduto con la sua proverbiale scatola di cioccolatini, Forrest è l’uomo della strada che potremmo vedere ogni giorno ma al quale probabilmente non avremmo dato retta. Il suo sguardo obliquo sulle cose e la bontà d’animo integrale che lo muove (anche quando tutti gli altri sembrano volersi approfittare di lui) sono stati una sconvolgente novità per la narrazione della disabilità, perché ne hanno offerto un ritratto al contempo delicato e di grande umanità, senza incorrere nel rischio di facili pietismi o semplificazioni. Lo stesso vale per il meno favolistico Buon compleanno Mr. Grape (Lasse Hallström, 1993), nel quale lo spazio immaginifico dell’America rurale fa da sfondo ad una vicenda tanto quotidiana quanto toccante, costruita attorno alle parole chiave della cura e della famiglia. Leonardo di Caprio e Johnny Depp offrono una interpretazione delicata e per nulla banalizzante di che cosa significhi vivere con (e insieme a chi ha) una forma di autismo particolarmente forte. Anche Rain Man – L’uomo della pioggia (Barry Levinson, 1988) mette al centro il tema dell’autismo e, soprattutto nella parte iniziale, spinge lo spettatore a interrogarsi criticamente sui meccanismi sociali che invisiblizzano la disabilità. Come il protagonista Charlie, infatti, anche noi dobbiamo imparare a conoscere un mondo del quale ancora troppo spesso ignoriamo le dinamiche e le complessità.
Se questi film hanno in qualche modo avuto il merito di canonizzare una certa rappresentazione della disabilità, al di fuori di facili parabole salvifiche e soffermandosi sugli aspetti quotidiani di queste esperienze, il caso di Dancer in the Dark (Lars von Trier, 2000) è interessante perché, al contrario, squaderna qualsiasi precedente e propone un’interpretazione personale e affascinante del tema. Atipico musical che rifugge tutte le convenzioni del genere e le rielabora in modo assolutamente radicale, Dancer in the Dark pone al centro la vicenda di Selma, una giovane madre immigrata (magistralmente interpretata da Björk) che si sottopone a turni di lavoro massacranti per permettersi di pagare un’operazione agli occhi al proprio figlio. Selma, la cui capacità visiva è a sua volta drammaticamente compromessa, quasi a sfiorare la cecità, è un personaggio tragico come spesso avviene nel cinema di von Trier, ma che grazie alla musica riesce ad abitare spazi immaginari che le sarebbero normalmente preclusi. Risolutamente lontano dagli stilemi del musical hollywoodiano e visivamente molto complesso, il film mette lo spettatore in una posizione di disagio percettivo, che pur non ambendo a mimare la condizione di Selma, mette in questione il nostro posizionamento di spettatori normodotati e ci spinge a riflettere sul concetto di privilegio percettivo.
Uno sguardo sul presente
Il cinema del nuovo millennio, complici anche l’emergere dei disability studies e i nuovi spazi di visibilità aperti per i soggetti disabili all’interno dei media generalisti, si è dimostrato capace di farsi carico della complessità del tema, con un ventaglio di film assolutamente eterogeneo dal punto di vista narrativo e stilistico. È certamente difficile offrire una panoramica di queste prospettive, ma anche senza addentrarsi nell’ambito della produzione documentaristica, alcune tendenze si impongono come particolarmente interessanti. Notevole per l’intensità con cui affronta il tema è senza dubbio Lo scafandro e la farfalla (Julian Schnabel, 2007), adattamento del toccante racconto autobiografico di un uomo ridotto, a seguito di un ictus, a poter comunicare soltanto attraverso il battito delle ciglia. Senza risparmiare allo spettatore sequenze di grande impatto emotivo, il film tenta di rendere esperibile (seppur in forma vicaria) la condizione di un soggetto che si trova in una situazione-limite e che tuttavia non si lascia ridurre all’impotenza. La vicenda del protagonista (interpretato da Mathieu Amalric) diventa esemplare di un atteggiamento di resistenza alle drammatiche condizioni della vita e riesce al contempo ad aprire una finestra su una condizione che, per lo spettatore medio, risulta difficile anche solo immaginare. Allo stesso modo liminale e ugualmente drammatica è la situazione vissuta da Ramón, il tetraplegico protagonista di Mare dentro (Alejandro Amenábar, 2004) che decide, infine, di porre fine alla sua vita. La straordinaria interpretazione di Javier Bardem riesce a non banalizzare la condizione di un uomo che per noi rimane inimmaginabile e che sfida le nostre coordinate etiche in un gesto estremo che non è di rinuncia ma di dolorosa e struggente vitalità.
Sulle medesime questioni si interroga, in modo ancora diverso, La teoria del tutto (James Marsh, 2014), biopic di grande successo sulla vita di Stephen Hawking, noto astrofisico affetto da atrofia muscolare progressiva scomparso nel 2018. Basato sulla biografia scritta dalla figlia di Hawking, il film ne ripercorre la vicenda umana con grande intensità, mostrando l’avanzare di una malattia fortemente debilitante e la tenacia di un uomo progressivamente privato dell’uso del proprio corpo nel continuare a sondare i misteri del cosmo. L’infinitamente grande dell’universo e il relativamente piccolo del corpo diventano entrambi misteri che, a fronte di qualsiasi teoria o sapere medico, non sono mai completamente conoscibili e il caso di Hawking si fa metafora di un atteggiamento di scoperta che non si lascia ridurre o fermare dall’ineluttabilità della vita. L’adattamento cinematografico di vicende biografiche esemplari è alla base anche di The Sessions – Gli incontri (Ben Lewin, 2012), che ha il pregio di trattare in modo al contempo delicato e problematizzante il tema (ancora troppo spesso ritenuto tabù) della sessualità delle persone disabili, mostrando come la conduzione di una vita sessualmente appagante sia un diritto troppo spesso trascurato in questo contesto.
The Sessions è un film interessante perché, rispetto ad alcuni di quelli menzionati in precedenza, apre la narrazione della disabilità ad una dimensione di coppia (non necessariamente sentimentale e/o sessuale) che è alla base di numerosi altri lungometraggi. L’amicizia, poi destinata a trasformarsi in amore, è ad esempio il sentimento che muove la protagonista di Un sapore di ruggine e ossa (Jacques Audiard, 2012), divenuta disabile in seguito ad un incidente occorso durante uno spettacolo con un’orca. Non c’è però film che meglio di Quasi amici – Intouchables (Olivier Nakache e Éric Toledano, 2011) abbia saputo tematizzare la questione del rapporto amicale nel contesto della disabilità e il ruolo che esso può avere nelle dinamiche inclusive. Il grande successo del film ha confermato l’interesse che il cinema contemporaneo ha dedicato alla questione della disabilità, soffermandosi in particolare sull’idea che il rapporto di caregiving, anche quando non espletato da consanguinei e parenti stretti, possa essere un’attività di grande arricchimento reciproco. Divertente e imprevedibile, il film di Nakache e Toledano affronta di petto gli snodi più importanti di costruzione del rapporto di cura, senza glissare sui momenti di conflitto che ogni relazione porta inevitabilmente con sé, ma considerandoli piuttosto come elementi di un processo orientato verso la costruzione di una forma di vita dignitosa e socialmente inclusa.
Su un rapporto a due si fonda anche Mi chiamo Sam (Jessie Nelson, 2001) che, anticipando in qualche modo questo rinnovato interesse verso le rappresentazioni della disabilità, pone lo spettatore di fronte alla battaglia (legale, prima di tutto, ma anche e soprattutto umana) che il protagonista affronta per vedersi riaffidare sua figlia. Cerebralmente fermo all’infanzia, si vedrà privato della figlia, consegnata ad una famiglia normodotata perché ritenuta più affidabile. Nel suo risoluto e radicale classicismo, Mi chiamo Sam è prima di tutto un affascinante racconto sul complesso tema del rapporto fra genitorialità e disabilità, ancora troppo spesso liquidato con facili semplificazioni. Con i dovuti distinguo (che riguardano la diversa rilevanza delle vicende rappresentate e alla diversa forma di disabilità che interessa i protagonisti), anche Il discorso del Re (Tom Hooper, 2010) si presenta come un film capace di interrogare in modo pregnante il tema dell’essere genitori. Prima ancora di diventare re Giorgio VI d’Inghilterra, Bertie è infatti figlio sgradito di un padre che – così come tutto il resto del mondo – gli preferisce suo fratello maggiore, capace di parlare perfettamente e senza balbettare, al contrario di lui. Appoggiandosi alla potenza di una vicenda storica al contempo ben nota e assolutamente inedita, il regista mostra un percorso di riabilitazione alla parola che si rivela autenticamente inclusivo ed è accompagnato sì dagli aspetti terapeutici, ma anche (e soprattutto) dalla capacità di accettazione dell’Altro garantita dall’amore (perfettamente incarnato dalla figura della moglie).
A chiudere, con una circolare specularità, questo breve percorso, vale la pena di menzionare un titolo italiano, il recente Freaks Out (Gabriele Mainetti, 2021), che sin dal titolo si ricollega al film-scandalo di Browning. Anche qui i protagonisti lavorano in un circo, che arriva nella Roma occupata dai nazisti, proprio quelli che contro tutto ciò che vedevano come una deformazione dell’umano avevano intrapreso un progetto di pulizia eugenetica. Il film di Mainetti entra a gamba tesa su una ferita ancora aperta della nostra storia recente, adoperandola come leva per esplorare i territori di un fantastico che ancora troppo raramente fa capolino nel cinema nazionale. La freakness dei personaggi cambia però di segno e non è più caratteristica da guardare con sorpresa o malcelato disgusto, ma occasione preziosa di affermazione di sé a livello personale, sociale e addirittura storico. Ognuno di noi, a fronte delle sue caratteristiche peculiari, è un soggetto irripetibile e straordinario e questo Mainetti (come ci aveva dimostrato già con il suo Lo chiamavano JeegRobot) lo sa fin troppo bene.
La disabilità in scena
Una delle questioni emergenti nel rapporto fra cinema e disabilità, che ci dà il polso di quanto la situazione in termini di rappresentazioni e aspettative sociali stia mutando, ha a che vedere con l’opportunità che siano proprio persone disabili a interpretare i personaggi che lo sono nell’economia narrativa del film. La riappropriazione da parte di individui con disabilità della performance attoriale è segno di un desiderio sempre più pronunciato di porre un freno alla colonizzazione che i corpi normativi mettono in campo in una varietà di ambiti (si pensi ad esempio al discorso, ormai più assestato, sulla persistenza di forme di blackface nella televisione italiana). Il tema è tornato in qualche modo a far discutere, in relazione alla disabilità, appena qualche anno fa, quando il film italiano Detective per caso (Giorgio Romano, 2019) non è stato ammesso al finanziamento pubblico del Mibac. Al di là del caso specifico e della polemica che ha fatto seguito a questo caso, il film ha avuto in effetti il merito di portare all’attenzione del pubblico nazionale un tema su cui da tempo si dibatte in altri contesti geografici. La vicenda vede protagonista una giovane ragazza che lavora all’ufficio oggetti smarriti di una stazione, la cui ambizione da detective porterà a sviluppi inaspettati. L’elemento qualificante del film è che, a fianco di attori affermati come Claudia Gerini, il film ha nel suo cast diverse persone con disabilità, che provengono dalle fila dell’accademia L’arte nel cuore, una delle poche istituzioni che si dedicano alla formazione cinematografica anche di persone disabili.
Detective per caso (Giorgio Romano, 2019)
Il medesimo nervo scoperto è toccato, con grande ironia e intelligenza, dal film spagnolo Non ci resta che vincere (Javier Fesser, 2018), straordinario successo al botteghino in patria. Il protagonista in questo caso è Marco, un allenatore sportivo che si trova costretto a svolgere nove mesi di servizi sociali in seguito ad alcuni eccessi alla guida. Si troverà così, inizialmente contro la sua volontà, a dover allenare una squadra piuttosto particolare, composta unicamente da persone disabili. Il film è un esempio perfetto di come sia possibile realizzare un’indagine non pietistica del mondo della disabilità, adottando in questo caso i toni della commedia più alta e impegnata. Il personaggio di Marco diventa, in questo caso, un doppio dello spettatore, in cui vedere riflessi i pregiudizi e gli stereotipi che ognuno di noi ha riguardo a individui sulle cui condizioni spesso conosce quasi nulla. Il paradigma sportivo ha spesso offerto al cinema la scusa di esplorare le implicazioni edificanti di alcune condizioni sociali, ma Non ci resta che vincere rimane quasi un unicum nel contesto contemporaneo per la capacità di offrire uno sguardo creativo, moderno e intelligente sul tema.
Come una vera coppia (Christian Angeli, 2021)
Sulla stessa linea si pone anche il film Come una vera coppia (Christian Angeli, 2021), proposto durante la prima stagione di Cinema Docet (qui la scheda del film). Questo delicato documentario, realizzato durante una vacanza per coppie composte da ragazzi affetti dalla sindrome di Down, ha il grande pregio di interrogare in modo assolutamente non banale e imprevedibilmente divertente il tema dell’affettività fra individui disabili, un elemento ancora considerato tabù in tanti discorsi e pratiche di cura. Senza nascondere il dispositivo documentario dietro un velo di naturalità che sarebbe necessariamente risultato artefatto, il film riesce ad offrire allo spettatore una fotografia sincera di uno degli aspetti meno considerati della routine quotidiana delle persone disabili. L’ingresso nella vita adulta e nell’indipendenza, cercata con forza e determinazione, passa infatti anche attraverso l’uscita dalla casa dei genitori e l’esperienza di un rapporto di coppia affettuoso e sincero.
a cura di Giuseppe Previtali