Intervista al regista Giacomo Agnetti

Potresti spiegarci com’è nato il progetto del film e in che modo sei venuto a contatto con la storia della foresta di cipressi delle Guaitecas e del loro popolo?

Non è stato un processo lineare. Già nel 2000 incontrai Kyla, la biologa responsabile del team, durante un viaggio in Sud America, e da quel momento in poi siamo rimasti in contatto. Dieci anni più tardi mi chiamò per informarmi di un suo nuovo progetto: mi disse che stava svolgendo una sperimentazione sulle piantagioni di cipressi delle Guaitecas. Le chiesi maggiori informazioni a riguardo e lei mi illustrò la sua ricerca, la quale mi parve di carattere più antropologico che biologico. Mi domandai subito se ci fosse materiale sufficiente per poter realizzare un documentario, dal momento che avevo già in programma di recarmi in Sud America per girare un’altra pellicola in Argentina. Decisi di rischiare, giocando d’anticipo e recandomi sul posto ancor prima dei biologi stessi per provare a conoscere meglio il luogo, la foresta, la popolazione locale e la loro storia.

Cosa puoi dirci della tua formazione sul cinema documentaristico e del tuo personale approccio al genere?

Direi che si tratta di una formazione più tecnica che estetica. Ho studiato da montatore cinematografico alla scuola di cinema “Luchino Visconti” di Milano per poi dedicarmi all’animazione, che non ha nulla a che vedere con i documentari. La mia compagna però è antropologa. Grazie a lei ho sempre frequentato l’ambiente universitario legato alla disciplina dell’antropologia, che si è trasformata per me in un interesse costante. È per questo motivo probabilmente che mi sono avvicinato ai documentari: non tutti i documentari sono legati all’antropologia, ma spesso quest’ultima emerge come interesse generale e filo conduttore.

Com’è stato relazionarsi “furtivamente” con le persone del luogo fino a far nascere interviste tanto fluide da far sembrare quasi assente la macchina da presa?

Quando sono arrivato a Caleta Tortel, il paesino in cui si svolge metà del documentario, ero da solo. I biologi mi avrebbero raggiunto soltanto dopo un paio di settimane. Per arrivare nel luogo preciso in cui avremmo dovuto operare occorrono sei giorni di viaggio puro dall’Italia. Una volta giunto sul posto ho deciso di non sprecare tempo e ho subito cominciato a girare. Mi sentivo un po’ come il protagonista di Lisbon Story, il film-documentario di Wim Wenders in cui un fonico anticipa l’arrivo della troupe, senza nemmeno sapere con certezza se questa troupe alla fine arriverà o meno. Ho iniziato allora a realizzare materiale video casuale, cosciente che tutto mi sarebbe potuto essere utile in futuro. Nel frattempo le persone del posto mi vedevano star lì, sempre a filmare. A un certo punto, una volta compreso che non ero semplicemente un turista, hanno cominciato a domandarsi chi fossi e cosa stessi facendo, iniziando a mostrare una certa diffidenza.

Come è riuscito, allora, a farseli amici?

Innanzitutto non ho mai cercato di riprenderli direttamente. Ho sempre interagito con loro in maniera del tutto normale, senza telecamera. Mi sono interessato alla loro cultura al punto da arrivare a lasciare del tutto da parte la telecamera per aiutarli con il lavoro. Chiedevo loro se potessi essergli utile con il lavoro per un paio di giorni e, così facendo, mi è stato possibile instaurare un rapporto di reciproca fiducia con buona parte della popolazione locale. Una volta acquisita questa via di accesso privilegiata, ho avuto la possibilità di intrattenere delle conversazioni più “sentite”, talvolta riprendendole.

Sappiamo che il documentario è strettamente legato al suo libro illustrato I cipressi della Patagonia. Quanto è importante adoperare differenti canali mediali e combinarli per riuscire a mandare un messaggio capace di affrontare temi così attuali?

Gli antropologi, come forse anche noi documentaristi (e come forse tutti nel mondo), tengono appunti di tutto quello che fanno. Soprattutto se si tratta di un’esperienza forte, capace di lasciare in loro il segno. E spesso quegli stessi appunti sono più interessanti del documentario. Il problema, però, è nella loro scarsa fruibilità. Mi è capitato spesso di domandarmi cosa fare con tutti i miei appunti, e in questo caso mi è venuto in mente di farne un piccolo libro illustrato che potesse aggiungere qualcosa al documentario, rafforzandone ulteriormente il messaggio.

E l’opera cartacea aggiunge elementi nuovi alla narrazione e al percorso del film?

In realtà si tratta proprio di una cosa diversa. Il focus del libro è la mia esperienza personale di documentarista: è come se fosse un backstage cartaceo. Ci sono risvolti della forma cartacea da non sottovalutare assolutamente. Per esempio il libro ci dà la possibilità di lavorare su piani diversi rispetto al documentario, arrivando addirittura ad intervistare un piccolo alberello di cipresso della Guaitecas. Perciò sì, secondo me il libro arricchisce la narrazione poiché in linea di massima la carta concede maggiore spazio alla fantasia.

Potresti raccontarci il tuo percorso, a partire dai suoi studi fino al periodo professionale e d’insegnamento?

Ho sempre disegnato, viaggiato e fatto fotografie. Fu mia madre, un giorno, a dirmi di provare a fare cinema perché l’arte cinematografica era la perfetta combinazione delle mie passioni. Decisi quindi di iscrivermi alla scuola di cinema “Luchino Visconti” di Milano, dove seguito il corso di editor cinematografico. All’interno di questo corso era presente un breve accenno all’utilizzo di Flash, programma che ora non viene più adoperato e che permetteva di lavorare sui fotogrammi. Per via delle caratteristiche dell’occhio umano, è necessario mettere insieme 24 fotogrammi in un solo secondo per generare un senso di movimento. Così, ho iniziato a lavorare disegnando fotogrammi per le mie storie, ed ero l’unico a farlo in tutta la scuola. Sono presto diventato “quello che faceva i cartoni animati”, e ne feci per tutti quei progetti che si sviluppavano all’interno della scuola e che ne avevano bisogno. Alla fine non ho impiegato molto a capire che quella era la mia strada. Oggi mi ritrovo addirittura dall’altra parte della cattedra: tengo il corso laboratoriale di Cinema Digitale all’Università IULM di Milano, e spero di riuscire a trasmettere ai miei studenti tutta la passione che provo per questo meraviglioso mondo.

Cosa puoi dirci della tua casa di produzione Magic Mind Corporation?

A convincermi definitivamente che il cinema d’animazione fosse la mia strada è stato un progetto realizzato utilizzando gli spazi della scuola “Luchino Visconti” e chiedendo aiuto a un team enorme di persone entusiaste, progetto che venne poi candidato al David di Donatello per il miglior cortometraggio. A seguito di quell’evento, grazie alla collaborazione di alcuni colleghi editor è nata a Berceto questa piccola casa di produzione. Le motivazioni, oltre alla passione, furono principalmente due. A Berceto vi era e continua ad esserci una vasta presenza di spazi vuoti in cui è possibile allestire comodamente i set cinematografici. Poi all’epoca il mercato italiano dell’animazione in stop motion era caratterizzato da una grande domanda cui faceva però da contraltare una scarsa offerta. Tutto questo ci ha permesso di lavorare con ciò che più ci appassionava, e noi abbiamo colto al volo questa occasione.

Esiste qualche autore o qualche film che, più di altri, ha influenzato il tuo percorso?

Sono principalmente tre gli autori a cui sono legato. Innanzitutto sono un grandissimo amante di Jim Jarmusch. Mi piace moltissimo la sua scelta di lavorare spesso con “non attori”, preferendo persone capaci di tenere la scena nonostante non abbiano alcuna formazione classica: questo mi fa pensare che le persone normali e la vita reale possano risultare spesso ben più interessanti del mondo finzionale. Poi Werner Herzog, perché la prima volta che ho visto The White Diamond (documentario del 2004 incentrato sulla storia del volo) sono uscito dal cinema sconvolto, come se avessi appena vissuto un vero e proprio viaggio e non semplicemente guardato un film. Tra l’altro ho avuto la fortuna di intervistare Herzog ed è stata un’esperienza meravigliosa: mi è sembrato di guardare negli occhi di un orso. Infine, forse più dal punto di vista musicale, mi ha sempre fatto un grande effetto Terrence Malik.

A cura di Michele Piazza, Sonia Galasso,
Pierluigi Spagnolo, Federico Ceresoli e Silvia Rollino

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